Ci sono momenti, nella storia delle musiche, in cui sembra che il tempo abbia preso bene le misure, e si appresti a consegnare a chi vorrà ritirarlo, un abito di ottima qualità, buon taglio, perfetta vestibilità e massima adattabilità alle più diverse situazioni. Succede anche nell’affollato atelier della popular music, che, come noto, può tranquillamente oscillare tra sublime e kitsch, intuizione folgorante e cliché retrivo. Uno di questi momenti topici andremo a individuarlo nell’Inghilterra del 1970, mezzo secolo fa esatto. E la visuale scelta andrà a metter sotto la lente d’ingrandimento il complesso mondo dell’hard rock, compagno di viaggio spesso bistrattato delle ruspanti avventure garage e psichedeliche, e di quelle un po’ altezzose del British progressive rock, fatto salvo il saper lanciare un solido salvagente sonoro tutte le volte che c’era bisogno di un po’ di energia dura e pura. Hard, appunto. Il 1970 non è l’anno in cui nasce il rock duro all’inglese: c’è un periodo d’incubazione storica di almeno un lustro, alle spalle. È però il momento topico in cui si vanno a formare almeno due gruppi – ponte fondamentale, per la storia del genere, con ricco coté di deuteragonisti sulle medesime piste e con quasi identiche intuizioni, e in cui quanto era stato gettato a semenza comincia non solo a germogliare, ma a dare frutti vistosi. Partiamo da qui.
PUNTO ZERO
Un «punto zero» potremmo metterlo, ovviamente, con tutta l’onda lunga dei gruppi inglesi che suonavano puro e crudo rhythm’n’blues innervato di rock’n’roll, o viceversa, ma sarebbe fin troppo facile: in fin dei conti anche il garage rock dei primi Sessanta per molti è una sorta di «proto punk». Però invece un paio di punti fermi si possono mettere, su chi piazzò i muri maestri del genere, in terra inglese, ed esattamente quando una buona parte del rock fuggiva verso assai più colorati viaggi. Parliamo dei Cream, di Jimi Hendrix ancora poco profeta in patria, ed acclamato in terra d’Albione, e dei Led Zeppelin. I Cream con la formula a tre che imbastisce la trama del power trio (basso, chitarra, batteria) trovano spesso la via per affrontare i lunghi rettilinei modali offerti dalla ripetizione di uno due accordi con frustate di potenza sonora decisamente ragguardevoli, alla luce dei modesti volumi usati in precedenza. Prenderemo a segnale dell’hard rock a venire, per loro, il sontuoso Wheels of Fire, metà dal vivo, a riversare sulle orecchie impreparate una polpa sonora pesante e flessuosa, metà in studio: il segreto è sotto gli occhi di tutti, un segreto di Pulcinella. Si prende Crossoroads di sua maestà blues Robert Johnson, e Spoonful del Principe nero Willie Dixon e se ne gravano le dinamiche perfette di una mole di watt pazzesca, si lascia spazio a Ginger Baker, gran signore di pelli e piatti per un assolo su Toad che più fragoroso e dominato dall’horror vacui non si potrebbe. Da ascoltare in coppia con Electric Ladyland della Jimi Hendrix Experience, medesimo anno: dove accanto alle lunghe, svirgolate session che già pulsano di flessuoso funk e jazz a venire ci sono anche episodi duri, durissimi. A partire dal trattare in cupa salsa hard rock la visionaria All Along the Wachtower di Bob Dylan, trasformandola in uno strano incubo saturo di elettricità. Electric Church Music la chiamava lui, il mancino diabolico innamorato della fantascienza.
PRODROMI
Questi i prodromi, se glissiamo sugli americani Blue Cheer che sfondavano i coni degli amplificatori dalle parti di Frisco, e che in terra d’Inghilterra erano poco più che un nome da indagare, nel caso. Sta di fatto che nel 1970 del trionfo del British hard rock, alle spalle appunto le avventure hendrixiane e della triade cremosa Clapton-Bruce-Baker c’è uno strano momento, prima che le chitarre comincino a tracciare il solco duro dei riff iperamplificati: due spinte da parte delle band titolari del brand «hard rock» apparentemente in contraddizione. Da una parte c’è l’exploit duro e puro della band che ha rubato il nome a un classico del jazz, Deep Purple, e che in una stagione è passato dal variopinto reame del power pop, della psichedelia e delle ingenuità assortite a una dichiarazione d’intenti inequivocabile: In Rock. Deep Purple in rock, col gioco di parole sui volti dei nostri davvero «in pietra» in copertina, a scalzare sul monte Rushmore i presidenti americani è una frustata micidiale che amplifica e velocizza le durezze già accennate da altre band: parte Speed King, e nulla sarà più lo stesso, nel reame del fragore.
D’altro canto invece in quello stesso 1970, i titolari acclamati del massimo rumore possibile in un brano rock, i già celebratissimi Led Zeppelin se ne escono con un disco, il terzo, che solo a fatica ricorda le impervie saettate elettriche della prima coppia di uscite. È registrato nella quiete gallese di Bron-Y-Aur, e anche se non manca qualche episodio più canonicamente hard (Immigrant Song), pencola vistosamente verso territori acidi e folk rock che, nel gruppo di Page e Plant cresciuto a botte di blues iperamplificato sembrano più o meno eresie. Il tempo rivaluterà anche queste storie, ma altre energie stanno per scatenarsi nel reame del rock duro.
PROLETARIATO
Il 13 febbraio 1970 esce in Inghilterra un disco dalla copertina minacciosa, decisamente in linea con certa tradizione ossianica e oscura da sempre ben radicata oltre Manica. Il disco si intitola Black Sabbath, e dà anche il nome al gruppo. Diventerà un punto di riferimento per diverse generazioni successive di hard rocker, e per quell’evoluzione estrema di estetica e di suono, pur radicata nelle medesime sulfuree paludi blues che il mondo chiamerà heavy metal. Il quartetto nasce nella plumbea periferia di Birmingham, Aston, una zona grigia di fabbriche e buchi neri lasciati dai bombardamenti nazisti. Sono tutti dei proletari sgamati e piuttosto rissosi, molto border line, senza sogni colorati da coltivare raccogliendo in giro da un ambiente stimolante, come i coetanei che si trovano a vivere nel medesimo periodo nella Swingin’ London. Lì se trovi un lavoro, come succede a John Michael Osbourne, che poi il mondo conoscerà come Ozzy Osbourne, o a Anthony Frank Iommi, figlio di italiani, la fatica è da operaio, da becchino, nel mattatoio con i suoi odori insopportabili, e via citando. Iommi, il chitarrista mancino dei Black Sabbath ci perde anche due falangi della mano destra in fabbrica: gliele strappa un macchinario, e si adatterà a suonare, con caparbia determinazione, fabbricandosi dei cappucci di plastica e di cuoio da infilare sui moncherini. Uno Django Reinhardt del rock. Che per un breve periodo incrocia pure le piste dei Jethro Tull di Ian Anderson. Ma non funziona. All’inizio per i quattro ci sono le classiche avventure garage, un gruppo, gli Earth, mette le fondamenta. Black Sabbath, il disco, viene registrato in otto ore il 16 ottobre ’69: praticamente un «live in studio», con Ozzy che canta con la sua voce aliena, metallica e magnificamente monocorde in una cabina. Prima di ottenere un contratto devono girare sette case discografiche, poi ce la fanno, con la Vertigo. In copertina c’ è la foto sgranata di una specie di strega davanti a un’inquietante villa di campagna. All’interno del disco un racconto gotico e una croce rovesciata. «Ci hanno messo davanti il lavoro finito, ed essendo noi i soliti morbosi, scontrosi, incazzosi e ribelli… mi viene sempre in mente quel film, Il selvaggio, dove dice : “Contro cosa vi ribellate?” e lui risponde “Contro di voi”… quindi faceva tutto parte della nostra mentalità. Quando l’abbiamo vista ne siamo stati immediatamente attratti. Qualcosa di decisamente morboso. Si sposa benissimo con una giornata di pioggia e una ciotola di zuppa, o qualcosa del genere». Ribelli senza una causa, dunque: con tutto l’immaginario gotico e occultista che si appiccica come una seconda pelle alla loro attitudine, in realtà punk ante litteram: «Eravamo un gruppo oltraggioso, potente e davvero sporco». Il disco si apre con il brano che dà il loro nome, rumore di pioggia e campane tubolari. E subito sbalza fuori quello che sarà il marchio di fabbrica del suono Black Sabbath, imitato e ripreso da migliaia di epigoni, che chiameranno il tutto «doom»: riff rallentati e ossessivi, pesantissimi, ingombranti da parte di Iommi, che abbassa anche scientemente l’accordatura della chitarra per favorire la mano mutilata, che, all’ascolto, danno una sensazione ansiogena di claustrofobia. Spesso in minore. La pentatonica e il tritono di un diavolo molto, molto proletario. Il tutto catalizzato amplificato dal timbro metallico della voce di Osbourne, e dalla ottusa e voluta pesantezza e precisione della sezione ritmica. Behind the Wall of Sleep paga un certo debito con i Led Zeppelin, sicuro, ma N.I.B. è una selva oscura di riff. Quanto basta per dare un bello scrollone al mondo ancora deliziato dagli aromi di Mary Jane e di Woodstock, anche se il lato b del disco, con lunghi brani da jam, in realtà non è così lontano dallo spirito dei Cream e di Hendrix.
In quello stesso 1970, però, i Black Sabbath dimostreranno che il buio fitto del loro rock duro in nero non era solo un tentativo: il 18 settembre, sette mesi dopo, sarà nei negozi il seguito, Paranoid, un capolavoro nero integrale, stavolta: a partire dagli otto minuti squassanti di War Pigs, dedicata a signori della guerra che mandano i ragazzi americani a morire nelle paludi del Vietnam. Parte con un’inquietante sirena, così come il primo disco si apriva con i rintocchi della campana. E il Vietnam ritorna, nel testo della sinistra Hand of Doom. Poi, di fila, arriva Paranoid, che intitola il disco, ed è uno di quei riff davvero luciferini, nella sua perversa e perfetta semplicità espressiva, che si installa in testa al primo ascolto e non esce più, e il gioco si fa ancora più scarno e metallico con la monumentale Iron Man.
IL CATTIVO DI DICKENS
Il 1970 inglese vedrà il nascere di un’altra band che ha a che fare con l’hard rock classico e il rovescio «black» della colorata effervescenza hippie nel nome: i Black Widow. Sacrifice il titolo del loro disco, davvero molto «sabbattiano». Il rock duro c’è, e così i riferimenti estetici all’occultismo e a una esagerata teatralità, e addirittura un titolo che chiama in causa i fratelli maggiori, Come to Sabbat, senza la acca finale. Però qui le pur pesanti incursioni chitarristiche si sfarinano in reami attoniti e psichedelici di tutt’altro stampo, si lambisce il progressive rock estremo, che negli anni a venire definiranno hard prog, come mettere assieme inusitate dolcezze e scossoni elettrici.
I maestri inglesi dell’hard rock in chiave prog si rivelano proprio nel 1970, ma le cose non vanno come con i Led Zeppelin, i Deep Purple, i Sabbath. Una sorta di maledizione critica iniziale peserà come un macigno per molti anni sulla band che ha la sfortuna di non piacere ai giornalisti musicali che contano nella loro primissima ora, e che predicono, nella persona di Melissa Mills di Rolling Stone, ogni sventura e caduta nel dimenticatoio per il gruppo che s’è scelto un nome più spregevole di Black Sabbath: Uriah Heep, come il nefasto personaggio dickensiano di David Copperfield. Risultato, a smentire le cattive profezie che sono sempre merce avariata: di quei critici non è rimasta se non l’eco irridente, gli Uriah Heep cinquant’anni dopo ci sono ancora, anche se passati attraverso mille cambi di formazione, e piuttosto scattanti e creativi ancora, se ad ogni uscita radunano folle festanti. I prodromi degli Uriah Heep possiamo rintracciarli in Head Machine, Orgasm, bel fritto misto di psichedelia, prog e hard rock, e negli sferraglianti Toe Fat: in entrambi suonano Ken Hensley e Lee Kerslake che poi faranno ossatura Heep. Il primo disco col brand Uriah Heep arriva il 13 giugno 1970, per la Vertigo che ha scelto anche i Black Sabbath ed è un shock: nel nome del gruppo, s’è detto nel titolo, Very ’eavy, Very ’umble, dunque «molto pesante, ma molto umile» (anche qui senza le h), un bell’enigma, nell’immagine di copertina, un uomo urlante con la faccia avvolta nelle ragnatele. Potente e decisamente fastidiosa. A differenza dei Sabbath, gli Heep possono contare sull’apporto di un tastierista eccelso che ha poco da invidiare a Jon Lord o Rick Wakeman, Ken Hensley. Poi c’è l’ugola impressionante di David Byron, una delle voci più luminose, potenti e dimenticate della storia del rock, e la chitarra guizzante e rocciosa al contempo di Mick Box, maestro dei pedali wah-wah, altro «rock hero» dimenticato sistematicamente quando si stilano le classifiche di chi ha fatto grande un genere. Hanno una sezione ritmica di prim’ordine, ma il punto di forza, che resterà il marchio di fabbrica della premiata ditta Heep, è il gioco di squadra nell’armonizzazione delle voci, raffinato e calzante, sempre a un pelo da un’estetizzazione kitsch alla Queen, ma amatissimo dai fan. I brani sono ancorati a riff di limacciosa potenza, come l’iniziale Gypsy, marchio di fabbrica ma le lunghe fughe strumentali e melodiche ricordano spesso più i territori fiabeschi prog rock che quelli lisergici: demoni bianchi e maghi bianchi assieme, dunque per rubare il titolo di quello che sarà il loro quarto disco.
Poi ci sono le ballad, di una dolcezza sorgiva. Quando prendono in mano Come Away, Melinda ne fanno un acquerello straziato. La critica continuerà a demolirli per anni, lo zoccolo duro dei fan che amano proprio quel suono specifico, sontuoso e duro, delicato e a un pelo dalla grandeur pomposa aumenta e si consolida negli anni. Merito anche di un’attività serrata sui palchi di tutto il mondo da operai del rock, gente abituata a macinare una data dopo l’altra senza lamentele. Anche se David Byron se l’è portato via, troppo giovane, nell’85, una serie infinita di bottiglie di whisky, e ogni vocalist che ne ha preso il posto ne ha inseguito l’ombra.
VIAGGI COSMICI
Chi l’hard rock lo interpreta in altra maniera, nell’Inghilterra di quegli anni innestando la spinta «cosmica» della psichedelia e di certo progressive rock sull’intelaiatura di ferro degli ostinati ritmici, col risultato di dar vita a un suono che può ricordare i Pink Floyd di A Saucerful of Secrets in piena crisi di collera bipolare sono un paio di altre band destinate a sopravvivere quasi a tutto. I primi sono gli Hawkwind di Dave Brock, che rubano il nome a uno strumento sacro degli indiani d’America, anche se l’immaginario della band nasce marcato stretto dalla fantascienza «popular» (e lo scrittore di fantascienza Michael Moorcock collaborerà spesso e volentieri con la band): astronavi, alieni, viaggi cosmici. La ricetta è semplice, ma inedita, nel primo disco del 1970 che porta semplicemente il nome della band, a partire da Hurry on Sundown, che apre la stagione dello space hard rock: serrato gioco chitarristico, intarsi di sassofoni e lunghe linee vocali, sintetizzatori borbottanti e sibilanti, interferenze radiofoniche, a simulare echi e un senso di vertigine rotatoria che rende i loro concerti un vero e proprio happening underground. Merito anche di un light show che nulla ha da invidiare a quello di band assai più celebrate e remunerate. Cinquant’anni dopo, come gli Uriah Heep, gli Hawkkind sono ancora qui, con Capitan Brock dietro la cloche del suo Millennium Falcon space rock parecchio acciaccato, ma ancora in grado di saltare nell’iperspazio: il loro suono ha via via incorporato crudezze punk e derive proto-metal, dolcezze acustiche e ricerca elettronica, e da decenni ormai il gruppo è diventato un fiero difensore delle organizzazioni ambientaliste più motivate e temerarie. Uno spicchio di underground che resiste.
Periodicamente si rifanno vivi anche gli Ufo, altra creatura space hard rock inglese al debutto nel 1970. C’è un pizzico di Black Sabbath, uno di Blue Cheer, e perfino la ruspante sferza sonica degli Who, nel loro suono hard rock dilatato e pressante, spesso incardinato in galoppate elettriche che non finiscono mai. Un altro nome di debuttanti da non dimenticare, nell’affollato palcoscenico hard rock inglese è quello degli Atomic Rooster di Vincent Crane, altro grande e dimenticato tastierista, proveniente dalle fila del gruppo di Arthur Brown, e di Carl Palmer, il batterista ipercinetico che, da lì a breve, sarà un lato del triangolo prog EL&P. Il disco di debutto del «galletto atomico» è una bella miscela di hard prog blues, il tutto condito da un certo spirito gotico che, evidentemente, era nell’aria. E l’umor nero era piena caratteristica di Crane: che morirà suicida nell’89.
Il 1970 porta con sé un bello sciame di classico hard rock «minore» inglese (per diffusione e scarsi risultati di vendite: non certo per qualità, spesso assai alta). Gruppi che i devoti dell’epoca riscoprono con sottile libidine, scambiandosi le informazioni: ad esempio gli Ancient Grease di Women and Children First, dal Galles. Nel disco grandi e poco educate cavalcate hard rock mescolate a ballad quasi country, ma la loro storia finisce qui. Nick Simper, roccioso e affidabile bassista dei primi Deep Purple trova nuova collocazione con gli Warhorse: il debutto del gruppo, nel 1970, rimanda inevitabilmente al suono Purple, ma nei riff c’è anche il ricordo dei monumentali Iron Butterfly americani, allora nome riveritissimo. Nome quasi identico per un’altra band semisconosciuta, Horse, che nel 1970 pubblicano un disco molto duro e molto oscuro, lanciato dai sei minuti devastanti iniziali di The Sacrifice. Infine i May Blitz, anche loro approdati all’etichetta Vertigo ed esordienti nel 1970: formazione a tre come i Cream o i Blue Cheer, grande attenzione a creare un muro di suono che forse non è il massimo dell’originalità, ma ancora oggi impressiona. E condiziona chi, mezzo secolo dopo, ancora propone la sfida degli amplificatori al massimo.