Fu nella Storia dell’arte italiana, pubblicata da Einaudi a partire dal 1979, ma in cantiere da tempo, che per la prima volta comparve il saggio, a firma Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg, Centro e periferia. Era un momento fortunato, quello. Einaudi aveva già da tempo concluso la pubblicazione dei primi dieci tomi dell’altrettanto grande progetto della Storia d’Italia, sul cui modello – in parte distaccandosene – prese avvio la Storia dell’arte. Una vicenda tormentata, che vide susseguirsi alla guida di tutta l’impresa (non senza strascichi, polemiche, rancori) prima Giovanni Previtali e poi Federico Zeri, e che si sarebbe conclusa solo con la pubblicazione del dodicesimo volume nel 1983, per poi avere una sorta di continuazione (anche se, formalmente, inserita in una diversa collana) con i tre volumi, curati da Salvatore Settis, dedicati alla Memoria dell’Antico nell’arte italiana, pubblicati tra 1984 e 1986. Sarebbero poi arrivati gli anni novanta, la crisi finanziaria, e l’acquisizione da parte di un altro gruppo editoriale.
Il saggio di Castelnuovo e Ginzburg sta nel volume inaugurale di quella grande impresa, significativamente intitolato alle questioni e ai metodi della disciplina. Accanto alle loro pagine, a comporre il volume c’era il saggio dello stesso Previtali sulla «periodizzazione», quello di Andrea Emiliani sui Materiali e le istituzioni oppure, ancora, il denso contributo metodologico di Ferdinando Bologna.
Il tempo trascorso da allora, dagli anni di piombo, dà la misura di quanto, non proprio in meglio, siano cambiate le cose a livello editoriale. A quella stagione piena, pur con tutti i problemi e le difficoltà, di spinte innovatrici, capace di pensare in modo radicalmente nuovo a nuovi e (soprattutto) vecchi problemi, bisogna guardare per trovare qualcosa di duraturo e significativo.
Bene ha fatto, dunque, Officina Libraria a ripubblicare il saggio di Castelnuovo e Ginzburg in un volume autonomo dal totolo Centro e periferia nella storia dell’arte italiana (pp. 164, 112 ill., euro 18,00). Nella prefazione a questa nuova edizione, Carlo Ginzburg ricorda come nacque quel saggio: fu agli incontri di Rhêmes Notre-Dame (Valle d’Aosta), organizzati ogni estate dalla casa editrice torinese per i suoi collaboratori, che da Castelnuovo gli venne l’invito a partecipare alla stesura di Centro e periferia. Ginzburg offre anche alcune direttrici per ripercorrere le varie ‘vite’ che quel saggio ha avuto dal 1979 in qua. Oltre che consegnare al lettore un ricordo venato d’affetto dell’amico Castelnuovo, scomparso nel 2014. I due autori, uno storico e uno storico dell’arte, erano giunti a quell’esperienza da strade diverse, da percorsi apparentemente distanti che, però, avevano trovato proprio lì un punto di incontro. In un certo senso la casa editrice aveva reso possibile quell’incontro, e ne erano nate cose buone. Una stagione, quella, che da più parti è stata evocata come un momento aureo, in cui una casa editrice riusciva a funzionare come luogo di aggregazione e coagulo di idee, di scambi tra le persone, di circolazione di pensieri. A volte anche di scontri, certo. Ma dai quali nascevano nuove idee.
I due autori non erano certo storici ‘comuni’. Ginzburg arrivava a quel saggio avendo già pubblicato I benandanti e Il formaggio e i vermi (Einaudi, 1966 e 1976) e avrebbe, di lì a poco, varato una collana, «Microstorie» (sempre presso Einaudi), con un saggio – assai discusso – dedicato a Piero della Francesca. Uno storico che un altro studioso di contesti «periferici» intrinseco alla Einaudi, Giovanni Romano, citava nell’introduzione ai suoi Casalesi del Cinquecento. Castelnuovo, dal canto suo, si era misurato con i problemi della geografia artistica quando – al centro dei suoi interessi il caso di Matteo Giovannetti nella Avignone dei Papi nel Trecento – aveva pubblicato nel 1962 quel vero e proprio capolavoro che è Un pittore italiano alla corte di Avignone, ancora una volta un libro Einaudi.
Non insisterò su quanto i temi di Centro e periferia siano di bruciante attualità oggi che, in un mondo oramai completamente globale, si fa tanta fatica a riconoscere una specificità territoriale senza essere travolti da ciechi e biechi localismi. Un saggio che, tra le molte altre cose, offriva una chiave per entrare in alcuni grandi edifici storiografici, come quello di Luigi Lanzi o, prima di lui, di Giorgio Vasari; che permetteva di ripensare le vicende della storia e della storia dell’arte, sovrapposte ma non perfettamente coincidenti, osservandole attraverso la lente della longue durée; che riusciva a delineare alcune delle linee di forza operanti nei diversi contesti, sempre soggetti alle specificità che li definivano. Un saggio che aiutava a riconsiderare casi ed esempi. Come quello del pulpito che Guglielmo scolpì per la cattedrale di Pisa tra 1159 e 1162 e che venne inviato a Cagliari quando Giovanni Pisano ultimò il suo pergamo nel 1310. Una lapide collocata al di sopra del pulpito di Guglielmo, poi dispersa in uno smontaggio ma tramandata dalle fonti, commemorava l’evento. Una periferizzazione fisica che rivestiva, però, anche significati identitari: la cattedrale della colonia pisana di Cagliari acquisiva così una «reliquia della terra d’origine», in grado di sottolineare, in un momento complicato come il principio del Trecento, con le mire aragonesi sulla Sardegna, il legame con la madrepatria. Che effetto straniante mettere quelle pagine a fianco di tanti saggi che circolano oggi…
Per non parlare della fortuna che Centro e periferia ha avuto al di fuori dei confini italiani. Un saggio tradotto in svariate lingue, che ha segnato un punto di svolta ed è stato momento irrinunciabile di riflessione – magari anche per prenderne le distanze o discuterne gli assunti di fondo, ma ferma la sua imprescindibile centralità per più di un campo disciplinare. Tant’è che il volume è il numero inaugurale di una nuova collana, «Storie», diretta da Lucio Biasiori e Francesco Torchiani, storici anch’essi, attenti al dialogo tra le diverse discipline umanistiche. Alla base sta una scommessa, quella di riuscire a scavallare sia gli steccati disciplinari che quelli, ben più insidiosi, tra «addetti ai lavori» e un più largo pubblico. Insomma, riproporre il saggio di Castelnuovo e Ginzburg non è solo, evidentemente, un’operazione di repechage