Si spostava velocemente Vivian Maier, a Chicago, con un Solex pur di andare a fotografare tutto. Affamata di immagini, sola – o al massimo coi bambini che per lavoro accudiva (trascinati, lo raccontano da adulti, nei quartieri malfamati e nei vicoli a rimestare nella spazzatura in cerca di chissà cosa), con cappello e con un cappotto grande e pesante, sul quale appuntava sempre una spilla. Le scarpe comode, i capelli corti e, d’estate le camicette semplici. La sua era una tenuta anonima cosi come anonime voleva fossero le sue origini, la famiglia, la storia.

Tutto doveva restare sepolto, avrebbe dovuto forse, restare sepolto. Lathe biosas, viveva nascosta come Emily Dickinson con la sorella che, dopo la sua morte, trova tutti quei librettini cuciti con dentro scritti versi meravigliosi e decide di pubblicarli. Anche per lei è andata poi come tutti sanno: Maloof, il rigattiere figlio di rigattieri che compra a un’asta in blocco ciò che stava abbandonato in un box da tempo, ci trova scatole su scatole di rullini, filmini, scontrini, cappelli, vestiti, ricevute, biglietti, insomma un elenco infinito di residui ma anche testimonianze della vita di Vivian.

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LE È DEDICATA, a Torino, una mostra (Vivian Maier inedita, Musei Reali – Sale Chiablese, fino al 26 giugno) in cui sono esposti momenti inediti della sua produzione fotografica, in particolare quelli relativi al suo viaggio in Italia e in Europa. Un po’ Mary Poppins ma anche un po’ Strega cattiva dell’Ovest, Maier resta impressa nella mente dei ragazzini che ha accudito che, intervistati da adulti, ricordano bene quanto con lei andassero in giro per Chicago nei sobborghi più desolati e quanto, con lei, la giornata fosse un’avventura metropolitana, inquietante ma molto avvincente. Come Atget, che a Parigi fotografava gli zoniers della periferia, anche a lei interessa l’uomo infame e ordinario, si sente come lui e quindi vuole raccontarlo.

IL SUO MODO di fotografare – con Rolleiflex biottica sempre al collo – le permetteva di entrare in intimità col soggetto senza interagire personalmente (Zavattini e Strand, lavorando nel 1953 al progetto su Luzzara notavano quanto la soglia emotiva si abbassasse di fronte al fotografo che, chinandosi per fotografare, non guarda il soggetto). Vivian crea così immagini che stabiliscono relazioni con il mondo. Vecchi stanchi logorati dal lavoro, signore in pelliccia, giovani donne allegre o maschi eccentrici trovano tutti un loro status attraverso il suo obiettivo.

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Spesso sono colti col movimento della mano che sfiora il viso, mani che tengono borse, sfogliano un giornale, si intrecciano fra loro in attesa di qualcosa oppure si aggrovigliano con altre, mani che sprofondano nelle tasche di cappotti logori. Una donna si aggiusta le calze e molti uomini si appoggiano con la testa ad una mano per brevi sieste sulle panchine cittadine. Lartigue, socchiudendo gli occhi, usava uno strumento ottico immaginario, Vivian trova l’occhio-trappola direttamente nei buchi da cui si affacciano i suoi bambini: un grande piatto di alluminio forato, la trama dello schienale di una sedia, una bruciatura che ha bucato il legno.

OMBRE SUI MURI e immagini negli specchi, textures riflesse ovunque di tapparelle, reti, colonnati, tende ricamate. Da non perdere, in mostra, i Super 8 che girava, anche questi senza tregua: ragazzini che giocano con uno pneumatico o che corrono dietro a un gonfiabile semitrasparente rosso e bianco, masse di gambe e scarpe cittadine all’uscita degli uffici nelle grandi strade della City.