Immagino siano in tanti a chiedersi che cosa spinga Renzi al bullismo, visto che le provocazioni e gli insulti non colpiscono tanto gli avversari quanto i suoi stessi compagni di partito. E visto che non può esserci dubbio sul fatto che il contrasto non è un incidente ma uno scopo perseguito con cura e previdenza.

Quando si trattò del Senato, Renzi avvertì che i dissenzienti avrebbero potuto spostare qualche virgola, non certo «stravolgere la riforma», intendendo per stravolgimento qualsiasi modifica del testo. Nel conflitto sul Jobs Act la formula si è precisata: «incontro tutti ma nessuno si sogni di cambiare nulla». Prendere o lasciare. È passata una settimana e siamo al match sulla finanziaria, coi tagli alle casse regionali e altre porcherie come il rinnovato blocco dei contratti degli statali, la decontribuzione e gli sconti sull’Irap che fanno sognare il dottor Squinzi. In tutti i casi la rivolta della vecchia guardia Pd era probabilmente auspicata, e ciò si spiega con la volontà di «asfaltare» chi critica ma non regge il conflitto. Ma ora come intendere l’urto col super-renziano presidente del Piemonte e della conferenza delle Regioni? Che Chiamparino avrebbe reagito era scontato: allora perché non prevenire lo scontro e anzi caricare i toni?

Gli storici sveleranno il mistero. Intanto, a caldo, sembra plausibile una sola ipotesi. Che – incalzato dalla tecnocrazia europea e tentato dall’opportunità di sfruttare il diffuso astio verso il ceto politico – Renzi lavori per conquistare un potere personale inedito nella storia repubblicana. Dopo aver vinto (grazie a Bersani) le primarie, annunciò di voler essere l’«uomo solo al comando» del paese. È quello che sta cercando di fare, sin qui con buon successo. Nel governo non deve tener conto del parere di nessuno, visto che lì nessuno è in grado di concepire pareri, fatta eccezione forse per il rappresentante dell’Ocse, con cui difatti litiga ogni giorno.

Nel partito batte i pugni sul tavolo quando qualcuno storce il naso. E ne trae grandi vantaggi, facendo sì che i critici si mostrino pavidi e tremebondi ed esibendosi al cospetto del popolo ammirante come un eroe senza macchia e senza paura. Come l’Uomo della Provvidenza all’altezza dei tempi, che «tira dritto» per ribaltare il mondo dalle fondamenta.

Naturalmente quest’opera di autoesaltazione implica la più sinistra virtù del politico: la capacità di mentire. Che Renzi possiede in sommo grado ed esercita cinicamente, complice la grancassa mediatica, pur di sedurre la platea degli spettatori che prima o poi dovrà convocare alle urne. Questa mega-riduzione di tasse a beneficio dei padroni è un esempio da manuale, visto che per milioni di italiani (compresi tanti che l’hanno votato fiduciosi) si tradurrà nel contrario o in nuove rovinose perdite di servizi essenziali, dalla sanità alla scuola, ai trasporti. Proprio come nell’Inghilterra del provvidenziale Blair. Ma la questione della verità e della menzogna non si pone. Politica e morale hanno divorziato da tempo, ammesso che abbiano mai convolato. Quel che conta è il gradimento dell’Europa e della grande finanza. Il potere, quindi il consenso comunque estorto, non certo la condizione reale della gente, sempre più povera, insicura e depressa. L’importante è condurre rapidamente in porto la trasformazione del paese in una libera società di mercato, dove tutto (e ciascuno) è merce e il capitale regna senza l’intralcio dei diritti.
In questo quadro «rivoluzionario» Renzi si muove come un pesce in acqua. E, con la sua aggressività e spregiudicatezza, è l’uomo giusto al posto giusto per quanti sognano una società pacificata nel segno della radicale subordinazione del lavoro. Ma se è così, provvidenziale Renzi lo è anche per un’altra ragione, opposta a questa. Proprio per la sua violenza padronale è anche il messo di una Provvidenza benevola, decisa a cancellare finalmente l’anomalia italiana: l’assenza di una sinistra minimamente in grado di contrastare lo sfondamento neoliberista e di proteggere la controparte sociale del capitale privato. Un’assenza – sia chiaro – che chiama in causa anche gravi responsabilità dei gruppi dirigenti susseguitisi in questi decenni alla guida della sinistra di alternativa.

L’estremismo renziano ha una qualche valenza storica, è una discontinuità che aiuta a periodizzare la poco esaltante esperienza della «sinistra moderata» italiana. Se fino al 2007 la normalizzazione della sinistra post-comunista aveva convissuto con un sempre più tenue e contraddittorio sistema di relazioni con le lotte del lavoro, la nascita del Pd ha sancito la sussunzione della «sinistra moderata» all’egemonia centrista e la sua funzionalizzazione al progetto oligarchico maturato nel quadro della crisi. Nel 2011 il protagonismo di Napolitano, regista extraparlamentare delle larghe intese, ha inaugurato una nuova fase, nel segno di un sempre più risolto sganciamento dal campo delle classi subalterne. Ora il brutale attivismo renziano porta a termine il processo, mettendo all’ordine del giorno la dissoluzione di qualsiasi residuo di sinistra nel Pd: la guerra contro il lavoro, l’urto frontale con il sindacato, lo smantellamento del sistema dei diritti sociali, lo svuotamento della Costituzione d’intesa col vecchio padre-padrone della destra.

Non è possibile negare la cifra reazionaria di tale programma, che lo stile populista del provvidenziale demiurgo rafforza. Ma proprio questo evidente connotato consente e impone di riconoscere senza indugi che la rinascita della sinistra italiana implica la sottrazione di tutte le sue componenti all’egemonia dell’attuale gruppo dirigente democratico, l’esercizio di quella pratica dell’autonomia politica che Gramsci chiamò «spirito di scissione». Dopodiché si tratterà di contribuire tutti a un’impresa ormai inderogabile – la costituzione di un nuovo soggetto politico della sinistra italiana – mettendo da parte patriottismi e settarismi e praticando senza reticenza l’obiettivo prioritario dell’unità.