Anche a non voler prendere troppo sul serio l’impegnativa affermazione di Jean-Patrick Manchette secondo il quale «il romanzo poliziesco è la grande letteratura morale del nostro tempo», né le parole di Chesterton che sosteneva come al pari dell’essenza di ogni filosofia, quella del «giallo» consisterebbe «nell’imbattersi in fenomeni visibili la cui spiegazione è nascosta», si potrà perlomeno convenire con Friedrich Dürrenmatt sul fatto che in molti casi gli scrittori del genere «tendono a costruite un universo da dominare» che nella realtà invece non esiste, frutto com’è quest’ultima di contraddizioni, del caso, dell’assenza di logica o razionalità. Una sorta di messinscena che allo scrittore e drammaturgo svizzero non andava giù, tanto da far dire al protagonista di La promessa (1958), un detective per necessità e antieroe per costituzione attraverso il quale Dürrenmatt regolava i conti con un filone narrativo che aveva per altro praticato: «Questa finzione mi manda in bestia. Con la logica ci si accosta solo parzialmente alla verità».

TRANCHANT O MENO che fossero le loro parole, quello che certamente hanno avuto in comune, anche se non lo avrebbero probabilmente mai ammesso, uno degli iniziatori del neopolar transalpino, il creatore di Padre Brown e lo stesso Dürrenmatt è l’idea che il poliziesco, o il noir come si è soliti dire oggi stiracchiando un po’ il senso e lo stile cui il termine si riferiva in origine, sia un buon modo per riflettere sulle contraddizioni non solo dell’animo umano, ma anche del mondo in cui gli umani si muovono. Non è perciò un esercizio inedito, né di per sé sterile, interrogarsi su quale realtà il noir europeo vada raccontando anche oggi, tra tracce di cronaca sociale, indagini nell’abisso dei sentimenti frustrati o vilipesi, sfide giocose e consapevoli alla «grande» Storia o alla più terrena politica. Il tutto, ammesso che non si voglia però giungere immediatamente alle conclusioni, che la «lettura» che si vuole trarre da queste storie criminali non sia una semplice versione narrativa di conflitti e contraddizioni che già si possono scorgere a fior di pelle per le nostre strade – talvolta accade, talvolta no -, bensì un’abile, talvolta raffinata codificazione letteraria di un’inquietudine che può assumere tante forme, di cui quelle a prima vista contraddittorie sono spesso le più sublimi e stimolanti.

La prima testimonianza in tal senso viene da Pierre Lemaitre, lo scrittore parigino che prima di applicare il proprio inconfondibile timbro nel segno del crimine alla Storia nazionale – la trilogia dedicata al periodo tra le due guerre mondiali inaugurata da Arrivederci lassù (Mondadori, 2014), romanzo con cui si è aggiudicato il premio Goncourt, cui fa seguito un nuovo progetto dedicato ai «Trenta gloriosi» appena inaugurato da Le Grand Monde, uscito per Calmann-Levy -, ha raccontato in una serie di noir irresistibili, su tutti Lavoro a mano armata (Fazi, 2013), le contraddizioni della società francese. Ora, nel prendere congedo dal genere – pur ammettendo che anche le sue incursioni nelle vicende del XX secolo muovono in realtà da un «giallo storico mancato» – Lemaitre chiude simbolicamente il cerchio pubblicando una storia scritta nel 1985 ma che non aveva mai affidato ad un editore.

E TRA GLI ELEMENTI che colpiscono di più in questo esordio narrativo – Il serpente maiuscolo (Mondadori, pp. 246, euro 20) -, accanto al definirsi di un stile asciutto, sottile e a tratti sarcastico, è l’emergere subito in primo piano delle figure di «piccoli francesi», spesso fragili, feriti, incerti sul modo di far fronte alle sfide che la vita impone loro. Personaggi dotati però di tratti inconfondibili che conservano sempre in sé una risorsa o una qualità, ma sui quali non per questo la vita evita di accanirsi. Come Constance che ha fatto i conti con le sue dipendenze per recuperare il bambino che le avevano tolto gli assistenti sociali, o l’ispettore Vassiliev che mangia solo scatolette per archiviare ogni sera rapidamente l’incombenza di una cena che non condivide con nessuno. O la stessa Mathilde, una sessantenne sovrappeso che vive con il suo dalmata nei dintorni di Parigi e che malgrado l’aspetto non certo minaccioso di mestiere fa la killer. Davvero zelante nel suo lavoro, si concede solo una piccola distrazione: «Conosce tutti i ponti di Parigi, non ce n’è uno da cui non abbia gettato una pistola o un revolver negli ultimi trent’anni», dopo un’esecuzione.

SE I PERSONAGGI di Lemaitre scontano un’assenza che è fatta di solitudine, di vuoto, di «serpenti» che si agitano nella testa, nella serie di romanzi firmati da Julia Chapman, «I delitti dello Yorkshire», che arrivano nel nostro Paese con il primo capitolo di Appuntamento con la morte (Neri Pozza, pp. 336, euro 18), l’assenza che si respira ha a che fare con la stessa «scena del crimine». Se la regione, sconvolta prima dalla rivoluzione industriale e quindi dalla fine dell’era del carbone e dell’acciaio ha fatto spesso da sfondo all’emergere di violenze selvagge, mentre all’orizzonte si potevano scorgere i tratti delle sofferenze inflitte a quelle comunità dalle politiche neoliberali – il quadro delineato da David Peace nel ciclo dei romanzi del Red Riding Quartet (raccolti in un unico volume dal Saggiatore nel 2017) -, nelle storie di Chapman è il clima dei «cosy mysteries», a basso contenuto di violenza, sangue e sesso, a dominare, e dove al centro della scena ci sono piccole comunità, in apparenza tranquille e sicure. Eppure, ben più che la classica tempesta che interrompe il tè delle cinque attende a Bruncliffe, «un’accozzaglia di fabbricati bassi cinta su tre lati dalle ripide colline delle Yorkshire Dales», l’ex agente di Scotland Yard Samson O’Brien e Delilah Metcalfe, che gestisce un’agenzia di appuntamenti online, quando le morti misteriose cominciano a fioccare.

Lo Yorkshire di Chapman induce a riflettere sulla violenza che si cela nelle pieghe della memoria locale più che in ciò che è dato vedere a prima vista, mentre uno dei nuovi nomi della novela negra spagnola, César Pérez Gellida trova il modo di indagare, grazie all’ispettrice Sara Robles, il dietro le quinte di un crimine – il furto di un’opera dal Museo Nazionale di Scultura di Valladolid -, in L’ultima a morire (Ponte alle Grazie, pp. 546, euro 18,50). Per scavare una galleria sotto al Museo, i criminali si avvalgono dell’esperienza di Raìmundo Trapello Dìaz, per tutti solo «Rai», un asturiano «fratello, figlio e nipote di minatori» che «con quasi trent’anni di lavoro nei polmoni aveva svolto tutte le mansioni possibili sotto terra». Un’attenzione al contesto e al profilo dei personaggi pari a quanto, immaginando però in questo caso crimini che si stagliano sullo scenario dei misteri del potere, fa Juan Gómez Jurado in Lupa nera (Fazi, pp. 414, euro 18, 50), secondo capitolo della trilogia investigativa che vede al centro la bizzarra coppia di investigatori formata da Antonia Scott e Jon Gutiérrez, le cui mosse sembrano ispirate da qualcuno che opera nelle retrovie delle istituzioni spagnole.

NON POTREBBE ESSERE invece più al centro della scena, sotto la piena luce dei riflettori la protagonista di Miss Merkel e l’omicidio nel castello (Sem, pp. 270, euro 18), divertissement in chiave poliziesca firmato da David Safier e a lungo in testa alle classifiche di vendita tedesche. Fin dal titolo, il gioco è evidente: ad indossare i panni di Miss Marple è proprio Angela Merkel che, lasciata la Cancelleria da qualche mese, sta cercando di costruirsi una nuova vita in un piccolo centro del Brandeburgo accanto al marito Achim, gaffeur patentato, a Mike, invadente guardia del corpo e al cane di famiglia, un carlino di nome Putin, quando si imbatte in una morte misteriosa. Se le battute che riempiono il libro giocano, con uno humour decisamente teutonico, sulla voluta confusione tra personaggi e ruoli – «Putin ha sganciato», avverte Mike e mentre qualche settimana prima Angela avrebbe trattenuto il fiato a sentire pronunciare quelle parole, ora deve solo estrarre un sacchetto di plastica per raccogliere ciò che il cane ha lasciato per terra -, emerge anche l’idea che in fondo l’adrenalina della politica lasciata a Berlino manchi a Merkel più di quanto sia disposta ad ammettere. È così che pian piano si trasformerà in una vera detective. Di fronte al cadavere «Angela aveva il cuore a mille», anche se immaginava «che, lasciato l’incarico, non avrebbe mai più provato quella meravigliosa, stimolante sensazione». Rinunciando al pudore che l’ha resa celebre, Merkel/Marple sembra così suggerire, parafrasando la celebre frase di von Clausewitz sulla guerra, che anche il noir può essere a sua volta «la continuazione della politica con altri mezzi».