All’alba di ieri, con il comandante dell’aeronautica indiana Abhinandan Vardhaman prigioniero delle autorità pachistane, ancora si temeva che il conflitto in corso tra India e Pakistan potesse degenerare, trascinando le due superpotenze in una guerra a tutto campo.

Ma con il passare delle ore, le iniziative intraprese – probabilmente grazie a una linea di comunicazione rimasta aperta tra Islamabad e New Delhi – hanno fatto intravedere l’orizzonte di un abbassamento generale dei toni.

Segno che, in fondo, né il primo ministro pachistano Imran Khan né il suo omologo indiano Narendra Modi hanno seriamente intenzione di votare al martirio i rispettivi eserciti sull’altare di una propaganda nazionalista che agisce, al di qua e al di là della Linea di Controllo, in modalità identiche ma di segno opposto.

Il primo passo è arrivato da Khan che, a sorpresa, nella mattinata di ieri ha annunciato la liberazione incondizionata del prigioniero di guerra indiano. «Un gesto di pace», ha spiegato Khan, lamentando i numerosi rifiuti incassati in passato dalla diplomazia indiana di fronte a proposte di dialogo bilaterale a latere di riunioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni unite.

L’annuncio, arrivato senza che Modi avesse rilasciato alcuna dichiarazione ufficiale in merito, è stato accolto tiepidamente dalle autorità di New Delhi, affidando ai vertici della Indian Air Force (Iaf) il compito di formulare la prima reazione ufficiale durante una conferenza stampa programmata prima della buona notizia.

Davanti ai giornalisti, il vicemaresciallo della Iaf RGK Kapoor ha interpretato la decisione di liberare il comandante Abhinandan come un «gesto in accordo con la Convenzione di Ginevra»: in altre parole, un atto dovuto da parte di uno Stato ostile coinvolto a tutti gli effetti in un conflitto armato, di fatto rimandando formalmente al mittente la mano tesa di Khan.

Rincarando la dose, Kapoor ha mostrato alla stampa alcune fotografie dei resti di un missile lanciato dai velivoli pachistani durante l’incursione oltre la Linea di Controllo dello scorso 27 febbraio. Secondo Kapoor, si tratterebbe di componenti di un missile aria-aria a medio raggio installato solamente su caccia modello F-16: prova, secondo l’India, che il Pakistan ha attaccato utilizzando velivoli in violazione delle regole di utilizzo imposte dagli Stati uniti, da cui Islamabad li ha comprati. I termini della transazione prevedono che il Pakistan impieghi gli F-16 solo per difendersi, non per attaccare oltreconfine.

Il Pakistan acquista F-16 dagli Stati uniti sin dagli anni Ottanta ma – questa la dichiarazione ufficiale di Islamabad di ieri – nessun caccia di quel tipo ha partecipato all’offensiva aerea di due giorni fa.

Mentre le forze armate di India e Pakistan mantengono un livello di allerta massima lungo il confine, il primo ministro indiano Modi ha presieduto un meeting di alto livello con i vertici degli apparati di sicurezza indiani di cui, mentre scriviamo, non si ha alcun dettaglio circa i contenuti; a disposizione c’è solo una fotografia che ritrae Modi seduto al posto d’onore intorno al tavolo ovale, circondato da ministri e vertici delle forze armate.

Sempre nella giornata di ieri, il governo centrale indiano ha ufficialmente messo al bando l’organizzazione estremista islamica Jamaat-e-Islami: da oggi, per New Delhi, è considerata un gruppo terroristico a tutti gli effetti.

Nonostante i toni bellicosi d’ufficio diramati dai portavoce degli eserciti di India e Pakistan, la liberazione del comandante Abhinandan oggi segna un punto di svolta positivo, rinnovando la speranza di un ritorno graduale allo status-quo di due settimane fa.