La letteratura scozzese è da sempre un mondo a parte rispetto a quella britannica. «La Scozia è un’isola» verrebbe da dire, anche se chiaramente non lo è, essendo soltanto la parte settentrionale della maggiore di quelle che un tempo venivano chiamate, anche nelle cartine geografiche, le isole britanniche. In virtù soprattutto di vicissitudini storiche e culturali, mantiene ancora oggi un suo isolamento che la rende discosta, e che rende la sua letteratura lievemente scostante rispetto ai paradigmi spesso conciliatori e più mainstream delle lettere inglesi.

GENERALIZZARE è sempre sbagliato, certo, ma si può con qualche cognizione di causa affermare che tanto l’Inghilterra romanzesca insegue in vario modo effetti da commedia, tanto la Scozia ammicca, senza rinunciare alla comicità, a quella che potremmo definire la farsa tragica. Questo avviene in tanti scrittori scozzesi contemporanei, e forse trova uno dei suoi paradigmi più riusciti in William McIlvanney.

Esce in queste settimane per le edizioni Paginauno una raccolta di racconti intitolata Chi si rivede! (pp. 138, euro 13,00) per la traduzione di Clara Pezzuto, correlata da interessanti note lessicali esplicative e da una postfazione attenta. Si tratta di racconti inusuali, in quanto i personaggi fanno la loro comparsa in più contesti. I temi, nella loro ricorrenza, sono sempre legati a una sfera individuale e familiare condizionata sì dal contesto sociale, ma ancor di più da aspirazioni universali alla felicità, che in un modo o nell’altro vengono soppresse e silenziate da una laconica accettazione dei destini umani.

Come a dire che la soddisfazione dell’individuo non può non avvenire che in simbiosi con la società, ma è la società stessa in definitiva a innescare il virus della freddezza e del distacco che tiene quegli individui inestricabilmente lontani gli uni dagli altri. Malgrado ciò, ossia nonostante un indubbio realismo pessimista condito da sardonica accettazione, non mancano frequenti interludi di pura comicità. In questi l’autore eccelle, soprattutto nel saper mescolare in un calderone tragicomico la visione della catastrofe e un disincantato volerla sfidare.

NEL SECONDO DEI RACCONTI, di certo il più emblematico e interessante, il protagonista si ritrova, nel bel mezzo di un incontro amoroso, a doversi nascondere in una casetta per le bambole a grandezza naturale allorché un borioso energumeno, amante di lei, si fa vivo e minaccia di morte chiunque sia in casa con quella che ritiene essere la sua compagna. Il nostro eroe, nel silenzio del suo rifugio, è tormentato, e non solo nel senso spirituale del termine: «Qualcosa stava pungendo brutalmente il piede nudo di John. Il dolore stava diventando insostenibile ma aveva paura di muoversi. Inoltre era terrorizzato che cambiando la posizione dell’altra gamba, il ginocchio avrebbe scricchiolato… John scrutò rapidamente il tallone e ci vide impressa la faccia della bambolina in miniatura».

UN SIMILE MISTO di comico e tragico avviene anche in una delle più ciniche performance di un protagonista di queste storie, nel racconto che dà il titolo alla raccolta. In questo, Eddie riesce a commentare con algido cinismo nientemeno che la morte del marito di una sua ritrovata amante, per cui lei conserva un ricordo immacolato: «L’ho incontrato più di una volta… Per quel che so, aveva l’abitudine di correre dietro alle gonnelle. E con quanta dedizione! Non aveva molto successo, ma l’entusiasmo non gli mancava».

Nell’ultima storia poi, un giovane che si definisce disadattato, ma che invero sembra avere soltanto la passione per i libri, per la musica e per la speculazione, mostra incredibili doti di scommettitore alle corse dei cavalli, e nonostante una famiglia che non lo comprende troppo, conserva la nonchalance che gli consente di non serbare rancore, ma anzi di amare, sempre con fatidica accettazione, i propri genitori. La famiglia, che nei racconti inclusi nel volume appare sempre in qualche modo disfunzionale, è un tema chiave della poetica di McIlvanney. Il rapporto con i suoi genitori è sicuramente una delle chiavi per comprendere questo autore. In un’intervista prima di morire racconta della madre e di come a dodici anni dovette lasciare la scuola per andare a lavorare in fabbrica, ma senza rinunciare mai alla passione per i libri. Il padre anche dovette affrontare una vita dura: «tornava a casa dalle miniere a quattordici anni e ad aspettarlo non c’era niente da mangiare, e neanche una mamma. Se ne usciva subito a bere da qualche parte. È stata mia madre a insegnargli cos’è una famiglia».

Questi racconti brevi ma intensi hanno il sapore della vittoria e della sconfitta al tempo stesso. Sono lo specchio di un carattere nazionale che sa mescolare all’isolamento tipico degli scozzesi e alla loro renitenza atavica all’assimilazione, l’unico antidoto alla disfatta cosmica, ossia l’ironia. Il realismo estremo di McIlvanney sfiora persino il visionario, il sogno, tramite la forza dell’aspirazione negata e i tentativi di reagire a un fatalismo che da sempre accompagna lo spirito e la cultura della terra di Scozia.