«La prima cosa che devo conoscere di un personaggio è cosa lo fa ridere. Voglio ascoltare il gorgoglio del suo humour interiore, come se si trattasse della sua stessa digestione. Questo mi racconta moltissime cose di lui. Sono incapace di resistere al riso delle persone. Se vedo il mio peggior nemico ridere, è certo che non potrò più detestarlo fino in fondo». Per capire l’opera di Robert McLiam Wilson si deve partire da qui, da queste riflessioni che lo scrittore di Belfast, ci comunica da Parigi, la città dove vive da una decina d’anni, alla vigilia della sua partecipazione al Festival Letterature di Roma (il suo reading è in programma venerdì alle 21 in Piazza del Campidoglio).

Lo humour, insieme al desiderio di vivere ad ogni costo una vita normale anche in mezzo alle bombe, rappresentano infatti le chiavi con cui McLiam Wilson, nato in Irlanda del Nord nel 1964, ha saputo leggere ed esorcizzare almeno in parte l’universo tenebroso e violento in cui è cresciuto: quello del conflitto sanguinoso tra protestanti e cattolici che fa da sfondo al romanzo che gli ha dato notorietà internazionale, Eureka Street, uscito nel 1996 e appena ripubblicato da Fazi (pp. 392, euro 18,50) e considerato, a ragione, uno dei libri più significativi mai scritti su Belfast e tra i più importanti della narrativa britannica degli ultimi decenni.

Dopo qualche altra prova letteraria, i romanzi Ripley Bogle (Garzanti) e Il dolore di Manfred (Fazi) e il reportage sulla povertà nel Regno Unito, The Dispossessed (Picador) l’autore aveva però interrotto la sua attività, spostandosi in Francia ed iniziando a collaborare con Libération.

A Roma annuncerà i temi del suo nuovo romanzo che uscirà nel 2016 dopo oltre 15 anni di silenzio, con il titolo, provvisorio, di The Extremist.

Tra gli elementi di maggiore forza di «Eureka Street» si potrebbe indicare la consapevolezza che la vita possa scorrere in qualunque caso, anche nel bel mezzo di una guerra civile come quella che ha a lungo insanguinato l’Irlanda del Nord. È una chiave valida per comprendere anche il suo rapporto con la scrittura e con la letteratura?

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Ho sempre ritenuto che Belfast incarnasse un esempio potente di un nuovo genere di guerra a bassa intensità, durante la quale le persone continuano ad occuparsi soprattutto delle loro faccende quotidiane e considerano gli effetti del conflitto politico e paramilitare che è in corso allo stesso modo dei problemi legati al traffico o al maltempo, vale a dire come se facessero soltanto parte dello sfondo. Qualcosa del genere a quanto è successo anche durante l’assedio di Sarajevo: molte persone continuavano a vivere «normalmente» mentre le bombe piovevano sulla città dalle colline circostanti. Addirittura, tra un bombardamento e l’altro si celebravano dei matrimoni. Credo di essere veramente sensibile a questa «vita malgrado tutto», ad ogni costo, a questa bellezza indomabile che emerge dal quotidiano, dal semplicemente umano. In questo, assomiglio un po’ a certi personaggi di Eureka Street, nel senso che anch’io quando vivevo lì avevo assunto delle abitudini tipiche di una tale atmosfera: cose paradossali come il farsi cullare dal rumore degli elicotteri che svolazzano sopra la città per prendere sonno.

Tutto ciò ha reso ai miei occhi Belfast come una città letteraria. Dirò di più: il mio rapporto intimo con la città è stato sempre mediato dai libri. Sono cresciuto grazie alla letteratura, ho osservato il mondo attraverso i libri che hanno governato il mio universo – insieme al calcio. In un certo senso ho sempre filtrato la realtà che mi circondava attraverso il prisma dei grandi spiriti di cui sentivo di condividere il pensiero. Tolstoi e Balzac mi sembravano molto irlandesi, quando ero piccolo. Quanto al ruolo che possono avere uno scrittore o la letteratura stessa in un tale clima, ho sempre pensato che le cose fossero piuttosto semplici: che scrive deve fare l’esatto contrario di quanto in genere una madre consiglia ai propri figli, vale a dire che deve farsi gli «affari degli altri» e ignorare i propri tormenti interiori.

Per questa ragione, dopo il successo ottenuto con i suoi primi romanzi, all’inizio degli anni Novanta ha scelto di attraversare il Regno Unito insieme al fotografo Donovan Wylie per raccontare, «The Dispossessed» («Gli espropriati»), le nuove povertà e l’emarginazione che erano sorte nel paese durante l’era Thatcher?

La scelta di scrivere quel libro la prendemmo in un periodo, quello dell’amministrazione di Bush senior negli Stati Uniti, durante il quale i teorici neoconservatori avevano cominciato a dominare il dibattito pubblico in tutto l’Occidente con le loro affermazioni sul fatto che la povertà non esisteva più, che le ricette economiche ultraliberali l’avevano debellata della nostre società. Ciò che veniva ripetuto ogni giorno era davvero insopportabile: erano solo bugie. E perciò ho pensato che in fondo anche come scrittore potevo avere delle armi da mettere in campo per far sentire un’opinione diversa: raccontare di quanti avevano perso il lavoro o si erano ammalati o erano stati obbligati a sopravvivere per strada. Spesso si trattava di persone completamente disperate che avevano perso casa, lavoro, affetti e si erano ritrovate sole a causa delle scelte economiche e sociali che erano state fatte nel corso di tutti gli anni Ottanta dai governi della Thathcer.

La cosa più orribile che descrivemmo era la condizione in cui versavano le istituzioni psichiatriche dopo tutti i tagli alla sanità pubblica che erano stati fatti: era una situazione degna dell’Ottocento, disperata, senza alcuna via d’uscita. Molti malati finivano per diventare «barboni» che si consolavano con la bottiglia e dormivano per strada. Ricordo quell’esperienza come la più dura di tutta la mia vita, un vero inferno. Molto più difficile e alienante che tentare di sopravvivere alla violenza di Belfast.

Quello dell’emarginazione e delle disuguaglianze sociali non è un tema estraneo anche alle sue opere più squisitamente narrative: un elemento imprescindibile per la letteratura di un paese così segnato dai confini di classe come la Gran Bretagna?

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Devo ammettere che malgrado io abbia vissuto un’infanzia molto povera e, più tardi, abbia passato alcuni mesi a vivere per strada, non mi ero mai imbattutto in situazioni paragonabili a quelle che ho incontrato nei mesi che ci sono voluti per mettere insieme i materiali di The Dispossessed. Solo allora ho capito che non avevo mai sperimentato una tale disperazione, una totale assenza di prospettiva o di futuro come quella che descrivevano le traiettorie esistenziali di coloro che incontrai in quel periodo a Londra, Birmingham, nel Galles o nel nord dell’Inghilterra. I miei strumenti di scrittore erano messi al servizio di un disegno che mi apparteneva solo in parte. Credo infatti ci siano due modi per pensare a quanto si sta scrivendo: come ad una propria esclusiva proprietà o come a qualcosa che appartiene prima di tutto ai lettori. I veri proprietari di quanto avevo scritto erano i protagonisti delle storie che il libro raccoglieva: era tutta roba loro, solo loro. Però, si, in fondo ritengo che l’impegno politico e sociale sia molto radicato nella tradizione della letteratura britannica. La descrizione delle povertà, degli ultimi e degli invisibili ricorre spesso, senza dubbio anche grazie alla grande popolarità di cui gode l’opera di Charles Dickens che di questi temi e di queste persone si occupò in tutta la sua carriera.

Dickens aveva avuto un’infanzia molto povera e, a ben guardare, non ha mai scritto davvero d’altro che di questa povertà. E le sue pagine hanno avuto un tale effetto sulla società dell’epoca che hanno spinto ad un cambiamento reale della situazione, in particolare quella dei quartieri proletari di Londra: le leggi e gli ordinamenti urbani furono cambiati in virtù del fatto che i suoi libri ebbero un’enorme diffusione e provocarono uno shock nell’opinione pubblica.

Pur vivendo a Parigi dal 2005, lei continua a seguire le vicende britanniche: ritiene che la Gran Bretagna di Cameron sia diversa da quella di Thatcher, la lady di ferro a cui l’attuale premier conservatore dice di ispirarsi?

Si, ma nel senso che da molti punti di vista le cose vanno ancora peggio rispetto a quell’epoca e temo che il paese sia destinato a conoscere nel prossimo futuro diseguaglianze ancora più selvagge e pericolose. Il vero problema è che tutto ciò non accade per colpa della destra che continua semplicemente a fare il suo «lavoro». È piuttosto il lungo suicidio della sinistra britannica ad aver reso possibile tutto ciò. Tony Blair ha fatto scelte talmente di destra che nessuno avrebbe potuto pensare in precedenza che il Labour subisse una tale torsione: per molti versi con lui al potere le cose per i più deboli si sono fatte ancora più difficili che con la Thatcher. Tutto ciò ha finito per squilibrare completamente gli equilibri politici tradizionali e ha contribuito a danneggiare lo stato britannico e le sue funzioni, mettendo in crisi l’idea stessa che lo stato si debba occupare in qualche modo dei suoi cittadini. Per Cameron è più facile far finta che i poveri o gli emarginati non esistano, che è poi la vecchia ricetta della Thatcher che descriveva un paese inesistente appoggiandosi sui pochi che traevano beneficio dalla sua politica di tagli e liquidazione del welfare state: qualcuno ha legittimato anche a sinistra questo tipo di discorsi. Per il resto, la destra al potere fa quello che ha sempre fatto.

Ormai divenuto per la stampa francese «il parigino di Belfast», dopo la strage di «Charlie Hebdo» lei ha ricordato sulle pagine di «Libération» i giorni del sangue in Irlanda del Nord: la violenza cieca cambia solo maschera ma si tratta del medesimo fenomeno?

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Sì. Non ho il minimo dubbio al riguardo. Potrei darvi la ricetta per fabbricare uno di questi cretini assassini nella vostra cucina. Facile e poco caro. Prendete un grande mestolo di stupidità e uno altrettanto grande di arroganza. Mescolate bene e fate un passo indietro e voilà, avrete creato la cosa peggiore nata in seno alla storia dell’umanità. Su Libération ho ricordato come da bambino a Belfast, dovevo avere 7 o 8 anni, ho visto un poliziotto morire in mezzo alla strada, senza che nessuno degli adulti presenti cercasse anche soltanto di coprirmi gli occhi: era uno spettacolo considerato abituale. Di quel giorno ricordo ancora oggi la pioggia e il sangue: la pioggia che batteva sul viso dell’uomo ucciso e l’enorme quantità di sangue che usciva dal suo corpo. Fui preso dal panico, ero terrorizzato, incredulo. Mi ci sono voluti degli anni per comprendere davvero cosa fosse successo. Il giorno della strage di Parigi mi sono sentito nello stesso modo. E ho cercato di dire che conoscevo le persone che avevano fatto tutto ciò, li avevo già incontrati, più volte, a Belfast come in tante altre parti del mondo: ovunque gli stessi stupidi, arroganti, privi di empatia e di immaginazione. Quel giorno, a Parigi, le persone complesse, divertenti, appassionanti che sono state uccise si sono trovate faccia a faccia con il loro contrario.