La psicologia è una scienza regale, scrivono Maria Nichterlein e John R. Morss in Deleuze e la psicologia (Cortina, pp. 228,  euro 22.00) seguendo il linguaggio del filosofo francese al quale dedicano il loro saggio; ma la definizione non è in alcun modo un complimento. Scienza regale, scienza di Stato – dicono i nostri autori – significa al servizio dell’universale, capace di fare tutt’uno con un insieme di strategie orientate a realizzare, in ogni dominio della realtà o dell’esistenza, quell’ideale regolativo che l’epoca e le sue grandi istituzioni hanno innalzato a propria bandiera. Nel nostro caso, l’ideale dell’efficienza, della flessibilità, della felicità, della produttività, e soprattutto del gioioso incessante consumo. Chi non sia adeguato a tanto ha bisogno di aiuto, ed ecco che la psicologia interviene, fa luce su quella inadeguatezza.

Verso una potenza illocalizzabile
Dal punto di vista di Deleuze, il solco nel quale si muove la psicologia, il suo architrave concettuale, può essere indicato con una parola quanto mai familiare, rassicurante: la parola è individuo. Ma per Deleuze l’individuo è un’invenzione, una costruzione. E così la regalità della psicologia. L’individuo è ciò che a un certo punto, in una certa congiuntura storica, la psicologia ha deciso di mettere a fuoco nella grande stoffa della nostra esperienza, ritagliandolo nel tessuto mutevole delle nostre abitudini e dei nostri modi di stare al mondo, per impiantarvi il proprio laboratorio.

Non è un caso se la psicologia moderna nasce portando quell’invenzione schiettamente metafisica che è l’io, il soggetto, nel chiuso degli ospedali, delle caserme, delle scuole, e nel vivo delle esigenze organizzative di quei luoghi. L’intera sfera dell’esperienza umana – affetti, pensieri, desideri – diventa un insieme di facoltà soggettive, di risorse identificabili, quantificabili, incanalabili. Il passaggio chiave sta proprio in questa graduale quanto implacabile privatizzazione dell’esperienza. Per rendere amministrabile l’esperienza umana, era necessario ridurla preliminarmente a sistema chiuso, isolarla in uno spazio ben delimitato, assegnarla a un singolo proprietario. Il concetto di individuo serve a questo, è la singola casella di quell’ampia quadrettatura che la psicologia fa calare sulla stoffa dell’esperienza, traducendola all’istante in un gettito di prestazioni individuali, e proprio perciò minutamente governabili.

Non stupisce che tutta la seconda metà del libro di Nichterlein e Morss si configuri come una sorta di contromovimento. Se la psicologia regale fa del nostro lavoro, dei nostri affetti, dei nostri svaghi e delle nostre inquietudini, un fatto privato e una risorsa custodita nel forziere del soggetto, si tratterà di riportare tutto questo nel mondo, di farne riemergere l’elemento impersonale: di ritradurlo nei termini di una potenza illocalizzabile. Desoggettivare la disciplina della psicologia, desoggettivare la concettualità che la attraversa, desoggettivare l’esperienza stessa, è questo il compito che Maria Nichterlein e John R. Morss vedono all’orizzonte di una nuova psicologia. Perciò chiamano la psicologia non più regale ma minore, ancora sulla scia di Deleuze.

Gli esiti alterni della seconda metà del libro documentano come non sia facile tradurre in contenuto questa giusta promessa, dopo secoli di privatizzazione dell’esperienza. Tutta una serie di concetti di Déleuze vengono messi in campo: intensità, concatenamento, piano di immanenza. Ma il problema è che tanti dei dispositivi della formazione, tante delle forme di psicoterapia oggi diffuse, degli apparati di controllo nei quali riversiamo in ogni istante il flusso delle nostre prestazioni psicofisiche, già da tempo hanno smesso di trattarci come individui, facendo di noi dei semplici crocevia, punti di transitoria sovrapposizione di flussi senza nome, coagulo momentaneo di sciami di eventi senza soggetto. Un giorno il secolo sarà deleuziano, aveva detto Michel Foucault: non sapeva quanto la nostra epoca gli avrebbe dato ragione.

Una scommessa per il futuro
Se così è, la grande questione all’orizzonte non è se andare verso l’impersonale, oppure no, se scommettere sulla desoggettivazione, oppure no, se optare per i grandi e ciechi concatenamenti che facevano sognare Deleuze, oppure no. Ma come andare verso l’impersonale, come scommettere sulla desoggettivazione, come abitare quei concatenamenti in cui ci stiamo già da tempo risolvendo. Il libro di Morss e Nichterlein ha il merito di farci avvertire il rumore di questa grande battaglia silenziosa, che essi mettono a fuoco sul terreno di una singola disciplina, la psicologia, solo perché la psicologia è il sapere a cui il nostro tempo delega quel problema chiave, quel luogo delle decisioni ultime che è il problema dell’esperienza. La posta in gioco di quella battaglia silenziosa è lo statuto della nostra esperienza, la profondissima riformulazione che essa sta attraversando sotto i nostri occhi distratti.