La notizia non è buona e non fa piacere. Dopo ventuno anni e mezzo di onoratissima attività, la casa editrice Charta, specializzata in arte contemporanea, viene messa in liquidazione. Lo fa evitando i commissari esterni e gestendo la chiusura da sé, continuando le pubblicazioni all’estero dei progetti già messi in cantiere, sei per la precisione (si va dalle collezioni d’arte del Guatemala ad un architetto americano) e trovando una soluzione «democratica» per il suo magazzino di libri. Perché Giuseppe Liverani, l’editore indipendente che ha retto il timone di questo galeone che ha affrontato non poche tempeste, non ama mandare al macero i suoi prodotti culturali e, confessa, ha sempre preferito pagare i pur alti costi di immagazzinaggio piuttosto che fare falò dei suoi eleganti cataloghi. Così, oggi promuove i «saldi», rendendo felici moltissimi studenti e un buon numero di anziani, studiosi o semplici appassionati della materia. Nello spaccio di Charta, in questi giorni, c’è un bel pubblico, attento e pronto a portarsi a casa ciò che più ama a prezzi stracciati, quasi da regalo.

Nata nel 1992, Charta può contare su quasi mille titoli (917), un tempo monografie in italiano e inglese, oggi solo in inglese e distribuiti esclusivamente all’estero, nel mercato straniero dove questa casa editrice è conosciutissima. Non è stato un caso, che nella sua espansione mondiale, sia approdata a New York a metà degli anni Duemila, con i suoi uffici (poi dismessi nel 2010). La Library of Congress di Washington ha deciso di inglobare fra i suoi scaffali tutta la produzione di Charta. La filosofia che guida la casa editrice resta la medesima, anche in acque agitate: i libri – costruiti con un pensiero, con attenzione alla qualità, pagando tutta la filiera e facendo lavorare maestranze italiane, dai cartai ai legatori fino ai tipografi – non si buttano, ma si fanno circolare. Coerentemente all’idea-base, presto partirà un container con diecimila volumi alla volta di Cuba, mentre il «fuori tutto» continuerà in via della Moscova 27 a Milano, fino al termine di febbraio. Intanto, l’intero catalogo sarà acquisito dall’Archivio Storico della Biennale di Venezia.

«La notizia non è che chiudiamo,  rovescerei piuttosto i termini: considero un miracolo il fatto che siamo riusciti a lavorare per più di vent’anni nella legalità, senza far lavorare i precari,nel rispetto delle regole del gioco, tenendo alta la qualità, anche quando quest’ultima comportava prezzi non proprio competitivi. In Italia è impossibile andare avanti – afferma Liverani -. Oltre alla tassazione asfissiante, ai tassi di interesse da usura delle banche, c’è una guerra dichiarata dei grandi gruppi editoriali che hanno conquistato tutto il mercato con gare al ribasso e una concorrenza che considero sleale. I bookshop dei musei, vitali per chi si occupa di arte contemporanea, sono inaccessibili a un editore indipendente. Vengono amministrati solo da alcune famiglie dell’editoria e, a chi si voglia avvicinare, chiedono percentuali altissime, che vanno dal 50 al 60%. Alla Biennale, Charta – che prima si diffondeva a macchia d’olio nelle varie librerie veneziane – è riuscita ad essere presente nel punto vendita perché sono intervenute le istituzioni, lo ha chiesto direttamente il presidente Baratta. Soltanto così abbiamo potuto contrattare sulle percentuali. Sto parlando di una torta piccola, dove i giochi possibili sono ridotti, ma il ritorno di immagine che si sviluppa con l’arte è immenso. Quindi, molti gruppi editoriali gestiscono i bookshop non per farli funzionare o guadagnare, ma come luoghi accessori, trampolini per il potere. D’altronde, le mostre ’chiavi in mano’, da Castel Sant’Elmo a Palazzo Reale fino alle Scuderie del Quirinale sono un fenomeno dilagante…In Usa, sono i librai a gestire i bookshop e, naturalmente, quel che fanno è cercare di vendere il più possibile».

L’esperienza di Charta rimarrà dunque solo un «lusso per pochi utopisti» (come ha scritto l’editore in una lettera aperta di fine anno)? Noi speriamo di no. E se è vero che gli unici ad essere interessati al «marchio» sono i cinesi, aspettiamo di veder comparire anche altri acquirenti (meno ciechi) italiani.