Quest’anno una nuova presenza arricchirà la 57/ma edizione della Biennale di Venezia: per la prima volta ci sarà il Padiglione della Repubblica del Kosovo, riconosciuto come Stato indipendente da almeno 114 nazioni, dopo la sua auto-proclamazione di indipendenza dalla Serbia avvenuta nel 2008. Nessun artista avrebbe potuto rappresentarlo meglio di Sislej Xhafa che, da almeno venti anni, lavora appassionatamente e trasgressivamente sui temi della geopolitica, dell’identità in divenire, della diseguaglianza che pervade lo scacchiere mondiale, interrogandosi su quel dislivello tra egemonia e subalternità degli Stati-nazione che tende a distaccare fra loro, culture e popoli e le loro soggettività. Xhafa inaugurerà il Padiglione del Kosovo (Arsenale) l’11 maggio con la mostra Lost and Found, curata da Arta Agani e incentrata sui temi della giustizia sociale e della libertà. Anche stavolta l’artista non smentirà la sua carica poetica-politica nel sottolineare la conflittuale condizione del mondo contemporaneo in cui lo smacco della globalizzazione ha accentuato distanze, annientato le ideologie e contrapposto le identità.

L’attitudine di Sislej Xhafa (Peja, 1970) che vive e lavora a New York, è riversata su un attivismo decostruttivo attraverso cui rovescia la retorica multiculturalista in una tattica d’attacco. Giochi linguistici, détournements, imprevedibilità e azioni spaesanti rimarcano il suo linguaggio, sottile e caustico. La condizione erratica, che comprende la sua stessa esistenza, è una costante ma mai una dominante nella sua ricerca, pur rimarcando la dimensione sempre in bilico dell’essere al mondo.

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Lei partecipò nel 1997 alla 47/ma Biennale di Venezia con l’azione «Padiglione clandestino». Cosa è cambiato in questi vent’anni ?
La sfida con me stesso è sempre presente, la white cube è un’invenzione del mercato, lo spazio è un’invenzione della libertà.

Nel 2005, alla 51/ma Biennale di Venezia, ha rappresentato il Padiglione dell’Albania, quest’anno quello del Kosovo. Cosa sta avvenendo nella società albanese?
L’identità è in mutazione, Kosovo e Albania – e anche altri paesi – non definiscono geograficamente un approccio romantico o comodo. Credo che la qualità individuale di queste nazioni porti una sfida col tempo e una freschezza nel mondo dell’arte. Oggi mi sento palermitano, domani di Roma e dopodomani sarò a New York. Appartengo al mondo e il mondo in sé è un laboratorio per la curiosità. Non mi interessano gli stereotipi, ma il posto dove sono nato è sacro per me. Voglio condividere le mie esperienze con gli spettatori per condurli in un’altra dimensione. Questa è la vera democrazia, l’unica che l’arte possa offrire.

Come può interloquire l’arte all’interno di una società in divenire come quella albanese, con i movimenti indipendentisti, le frantumazioni identitarie e la continua trasformazione geopolitica?
Resistere vuol dire esistere. L’arte è una lingua universale mette in questione la complessità delle società moderne. La responsabilità dell’artista non è cambiare il mondo, ma porre delle domande. L’arte apre spazi di partecipazione, l’indipendenza oggi in ogni sua forma non esiste, l’indipendenza è dipendenza, dobbiamo essere in grado di fare giuste scelte per dipendere. Il Kosovo come paese indipendente ha avuto le sue evoluzioni, è una sfida col tempo e con le complessità in cui viviamo.

Stessa domanda fatta a Jeremy Deller nel 2013: come può un artista a «rappresentare», attraverso la sua opera, il sentimento di una nazione senza incorrere nel nazionalismo? È una grande responsabilità…
La Biennale di Venezia è più un atto politico che artistico. Le nazioni sono una vetrina ma non è mimetique desirée, non mi interessa nessuna forma di nazionalismo, l’identità di un paese si misura con i valori aggiunti e con la competizione nella sfera economica. La libertà come atto pratico deve essere coltivata e le società si rispecchiano nella solidarietà e nel rispetto della dignità umana.

Può parlarci del progetto per il Padiglione del Kosovo?
Baccalà.

 

SCHEDA

«Intuition», co-prodotta dalla Axel & May Vervoordt Foundation e la Fondazione Musei Civici di Venezia, a Palazzo Fortuny, s’ispira alla parola latina «intueor» – lampi improvvisi. Si va dall’erezione di totem allo sciamanismo, alle estasi mistiche, dagli esempi di illuminazione nell’iconografia religiosa (Annunciazione, Visitazione, Pentecoste…) alla capacità di rivelazione divina del sogno dimostrando come l’intuizione abbia plasmato l’arte in aree geografiche, culture e generazioni diverse. Un’esposizione che riunisce artefatti antichi e opere del passato affiancate ad altre più moderne e contemporanee tutte legate al concetto di intuizione, sogno, telepatia, fantasia paranormale, meditazione, potere creativo, fino all’ipnosi e all’ispirazione. In carrellata, Kandinsky, Klee, Hilma af Klint e poi Masson, Brauner, Man Ray, Michaux, Isa Genzken, gli stati d’animo di Abramovic e Janssens, la telepatia di Lutyens, Hugonnet, Angel Vergara e Matteo Nasini. Le domande sulle origini sono affidate invece a Kimsooja, Garutti, De Bruyckere.