La Diada, la festa nazionale catalana che si celebra oggi, segna tradizionalmente la riapertura della stagione politica in Spagna. Ma negli ultimi anni, la celebrazione – che ricorda il momento in cui le truppe di Filippo V entrarono a Barcellona nel 1714 dopo un lungo assedio – è sempre più una prova di forza dell’indipendentismo, con manifestazioni studiate fino all’ultimo dettaglio logistico e visuale per essere sempre un successo d’immagine. Quella di quest’anno è la prima Diada del governo Sánchez che sulla questione indipendentismo, in questi primi 100 giorni di governo, ha smorzato i toni ma non ha risolto. Ed è la prima Diada dopo la pseudo-dichiarazione di indipendenza catalana il 27 ottobre scorso – che fece scattare l’applicazione del famigerato articolo 155 della Costituzione spagnola che sospese l’autonomia catalana fino alle nuove elezioni – e soprattutto la prima Diada in cui politici catalani di primissimo piano sono rinchiusi in carcere o sono all’estero. Non già per i numerosi casi di corruzione che hanno colpito il partito egemonico in Catalogna, l’ex Convergència, poi PdCat, e ora annacquato nel movimento Junts per Catalunya. Bensì per aver lottato per far votare ai catalani un referendum dichiarato illegale dal governo spagnolo; o per aver infranto la legge, secondo la campana che vogliate ascoltare.

Ma una cosa è certa: gente come l’ex presidente Puigdemont (in Belgio), l’ex vicepresidente Junqueras (in carcere), l’ex presidente del Parlament Forcadell (anche lei in carcere) e molti ex ministri e ministre catalani sono tutti indagati in una macrocausa le cui udienze non cominceranno prima dell’autunno, e intanto molti di loro sono in carcere preventivo. Secondo molti giuristi, un’enormità, perché non hanno torto un capello. Anche perché, finora, tutti i giudici europei che hanno analizzato le richieste di estradizione spagnole hanno ritenuto che non ci fossero le basi per accusarli di delitti gravi come la ribellione, che implica l’uso di violenza.

Detto questo, però, la situazione politica catalana è in stallo. Lo scialbo presidente “temporaneo”, come si definisce lui stesso, Quim Torra è incapace di prendere l’iniziativa politica al di là dei proclami sul “rendere effettiva la repubblica”; il presidente del Parlament Roger Torrent ha chiuso la camera a metà luglio e non ha convocato sedute fino a ottobre. Non proprio un modo efficace per dimostrarne l’utilità dopo il blackout del 155. La verità è che i tre partiti indipendentisti, Junts per Catalunya, Esquerra Republicana e la Cup non sanno come mantenere il racconto dell’indipendenza a portata di mano e – senza poterlo dichiarare – ormai non si sopportano. Esquerra rinfaccia a Puigdemont e ai suoi il sacrificio del carcere, a cui l’ex president si sottrasse scappando di nascosto e senza informarne nessuno. D’altra parte Esquerra, pragmaticamente, cerca una via d’uscita negoziata dall’impasse, ormai ben consapevole che la via unilaterale all’indipendenza è, oltre che impercorribile, foriera di durissime conseguenze giuridiche. Ma Torra, Puigdemont e i loro non ne vogliono sapere, e continuano a lanciare proclami retorici vuoti quanto pericolosi. L’ultimo quello di una non meglio definita “marcia” di protesta per i prigionieri politici, o la minaccia di non accettare una loro condanna.

Nel frattempo il “bluff” – secondo le parole dell’ex ministra Ponsatí, ora al riparo in Scozia – dell’indipendenza express continua però a caricare un gran numero di catalani. L’arma simbolica ora sono i “laccetti gialli” di cui sono pieni tutti gli angoli della Catalogna. Simbolo di protesta contro i “prigionieri politici” (e per questo appoggiati o non osteggiati da altri partiti, come i Comuns di Ada Colau) ma che i pasdaran nazionalisti spagnoli e catalani hanno trasformato in campo di battaglia: Ciudadanos e Pp lanciano benzina sul fuoco dello scontro, e simmetricamente i nazionalisti catalani hanno fatto del giallo un simbolo con cui occupare lo spazio pubblico.

La manifestazione di oggi quindi sarà l’ennesimo movimento propagandistico (tanto che per la prima volta Colau ha detto che non parteciperà) ma in un clima di scontro latente per il quale non si vede via d’uscita. A forza di sparare alto sarà difficile per gli indipendentisti arrivare a far accettare ai loro un negoziato. Che pure il Psoe ha timidamente intrapreso con micro gesti di distensione (riaperto il dialogo bilaterale dopo 7 anni, revisione delle leggi catalane impugnate da Rajoy), ma certo senza il coraggio di affrontare il fatto che la Catalogna oggi è spaccata. E, come ha detto il lucido e anziano deputato di Esquerra Republicana, Joan Tardà, è altrettanto insensato per gli indipendentisti ignorare la metà dei catalani che l’indipendenza non la vuole, come per il governo spagnolo fare finta che i 2 milioni e mezzo di catalani che vogliono andarsene non esistono.

Ma il governo Sánchez è impegnato su troppi fronti ed è troppo debole per decisioni coraggiose: la sospensione della vendita d’armi all’Arabia Saudita ha causato una rappresaglia economica, Podemos, i baschi e gli indipendenti vendono caro l’appoggio alla finanziaria, l’esumazione di Franco è più complicata del previsto. E il Psoe potrebbe perdere un’altra ministra.