In questi giorni molte iniziative di uomini contro la violenza di genere partono da un’assunzione di responsabilità ineludibile: «La violenza contro le donne è un problema che riguarda noi uomini». Eppure hanno sollevato diffidenze e non sono indenni da ambiguità e incertezze. E non potrebbe essere altrimenti in assenza di una pratica diffusa di riflessione maschile.

I femminicidi si ripetono ogni giorno. Poi un omicidio più efferato o un numero di uccisioni in pochi giorni risvegliano l’attenzione dei media.

L’indignazione chiama a non restare indifferenti. Ma può essere anche una comoda via di fuga. Si invoca la punizione del violento senza mettersi in discussione.

Liquidare gli autori di violenza come «mostri» non sollecita una reazione ma la anestetizza. Sì, vedo la mia amica che da quando sta col ragazzo non esce più con noi, sento le battute sulla collega che è stata carina col capo, vedo ragazzi e ragazze che per dirsi che si amano scrivono i loro nomi su un lucchetto attaccato a una catena, vedo il rancore del vicino contro la ex e prima le sue urla in casa, vedo il mio amico che zittisce la moglie… ma questo è altro. La violenza di chi uccide con 25 coltellate non mi appartiene, se ne occupino la polizia o gli psichiatri.

Sarebbe un errore liquidare questa indignazione, denunciarne l’ambiguità e non valorizzare la crepa che si apre nel silenzio e nella rimozione che circondano la violenza di genere.

Proprio perché la violenza è alimentata da una cultura condivisa, le stesse campagne istituzionali, le reazioni maschili e anche gli appelli femminili agli uomini ne riproducono gli stereotipi: l’appello alla virtù virile dell’autocontrollo, la nostalgia per i «veri uomini che rispettano le donne».

Milena Gabanelli, denunciando l’assenza di prese di posizione degli uomini di cultura, chiede: «Dove siete? Non è una cosa da maschi proteggere le donne?».

Ma la protezione diventa controllo e il controllo legittima la violenza. Anche molti appelli maschili contengono questa contraddizione. Le donne restano vittime, bisognose di protezione. E perché hanno vissuto insieme per vent’anni con personaggi orribili, perché se ne sono innamorate? Anche loro con qualcosa che non va? E se questo qualcosa riguardasse le aspettative che anche noi mettiamo nelle relazioni, i modelli che amiamo?

Le diffidenze verso la presa di parola maschile si basano poi sul sospetto che il lavoro culturale e l’appello al cambiamento maschile sfuggano la repressione. L’equivoco è considerare più «radicale» la pena per il singolo, anziché aggredire la radice culturale della violenza e agire un conflitto e una trasformazione. L’intransigenza, che nega la complessità si offre alla retorica della destra che è nemica della libertà delle donne e delle differenze.

E così affermare che «i violenti non cambiano e neanche gli uomini» rimuove la necessità di produrre un conflitto quotidiano e di riconoscere il cambiamento, non con benevolenza ma con un’apertura esigente e rigorosa. La soluzione è solo nella trasformazione di ruoli e immaginario condivisi.

Molte donne hanno espresso fastidio per l’attenzione dei media per l’eccezione dell’uomo che manifesta contro la violenza, anziché la mobilitazione quotidiana delle donne. Qui c’è una più sottile diffidenza verso quella che viene percepita come una «invasione maschile» di uno spazio politico. Questa diffidenza va ascoltata, ma anche messa in discussione perché non riconosce la necessità e la possibilità di una rottura maschile con il patriarcato.

Come possiamo da uomini, eterosessuali, agire un conflitto con un sistema che ci dà potere e privilegio? Come costruire cambiamento a partire da questa posizione?

Se gli uomini traggono da questo sistema solo opportunità e privilegi allora non potremo che diffidare di gesti maschili di rottura.

Se riconosciamo che la virilità implica un potere e un privilegio ma anche una miseria nelle vite degli uomini, imprigiona la sessualità nella prestazione, riduce il corpo ad arma e macchina, allontana dalle emozioni, rattrappisce la nostra socialità, allora possiamo pensare un cambiamento maschile che non sia volontarismo o ipocrisia.

La retorica dominante ci dice che l’entrata di crisi di questo ordine genera la crisi degli uomini e di ogni uomo. Ma può anche aprire a una diversa vita possibile.
I segni di cambiamento ci sono: padri che scelgono di dare valore alla relazione di cura, uomini che si sottraggono alla competizione, uomini che provano a vivere la sessualità fuori dalla performance. Segnali relegati nelle vite singole, senza visibilità sociale collettiva.

Dovremmo costruire parole, rappresentazioni e pratiche in grado di pensare, da un punto di vista maschile, questa trasformazione.

* Maschile Plurale Roma