Tre cadaveri di sconosciuti trovati sulla spiaggia e la vita nell’isola sembra destinata a mutare per sempre. Richiamando più o meno esplicitamente le tragedie dei migranti nel Mediterraneo, Philippe Claudel indaga in L’Arcipelago del cane (Ponte alle Grazie, pp. 204, euro 16,00) i sentimenti tristi di questi anni di ricorrenti crisi umanitarie, muri che crescono e barbarie che si diffonde. Fedele al percorso già intrapreso, tra gli altri suoi romanzi, con La nipote del signor Linh, Le anime grigie e Il Rapporto, lo scrittore e regista francese membro dell’Académie Goncourt – che è stato tra gli ospiti del recente Salone di Torino -, indaga, lungo le piste narrative del polar, il confine a volte tragicamente banale tra il bene e il male, l’indifferenza e la capacità di indignarsi e «prendere parte». Una voce preziosa e raffinata al servizio di una nuova narrativa civile.

Questo romanzo sembra tradurre un’urgenza: la necessità di agire di fronte al silenzio che spesso circonda la sorte di chi attraversa il Mediterraneo in cerca di una vita migliore.
Il Mediterraneo si è trasformato dal nostro «mare comune» in una sorta di gigantesca frontiera d’acqua. I media raccontano ogni giorno le storie di persone che muoiono in mezzo al mare, senza che però questo provochi spesso delle reazioni che vanno al di là dell’emozione del momento, senza che le persone sentano di dover chiedere ai loro governanti di cambiare politica e di trovare delle soluzioni umane e efficaci. Perciò mi sono detto che ciò che non riescono a fare giornali e tv, vale a dire ad incidere davvero sull’opinione degli individui, forse la letteratura può contribuire a farlo. Facendo sì che attraverso un romanzo le persone si pongano almeno delle domande in più, inizino a riflettere…

Lo scrittore francese Philippe Claudel

Al pari di quanto avviene nelle sue opere precedenti, anche ne «L’arcipelago del cane» lei sembra giocare con i codici del noir per indurre nel lettore la voglia di indagare, di scoprire quanto sta accadendo. Un meccanismo che spinge chi legge anche ad interrogarsi su se stesso?
Quando si vuole spingere chi legge a compiere una riflessione complessa che lo può porre in una posizione scomoda, c’è bisogno che il percorso che lo condurrà fin lì risulti il più possibile intrigante, che giochi con le corde della seduzione narrativa. E in questa prospettiva nulla funziona meglio del polar, della metrica dell’indagine poliziesca con la tensione in cui precipita il lettore. Non si tratta però solo di catturare la sua attenzione con questo strumento, ma anche di coinvolgerlo, di far sì che si trasformi a un svolta in «detective», che svolga la propria indagine personale e che, nel caso di questo romanzo, dopo essersi chiesto chi siano le persone trovate morte sulla spiaggia e chi li abbia uccisi cominci a domandarsi: «Io come avrei reagito, cosa avrei fatto di fronte a tutto questo?». Non a caso si cita spesso il noir come la nuova letteratura sociale: ponendoci tutte queste domande finiamo per interrogarci su come funzioni il nostro mondo e, magari, su come vorremmo cambiarlo.

In questo caso il noir si misura anche con il mito, addirittura con l’eredità della tragedia greca e le sue metafore…
In effetti ho cercato di costruire una sorta di favola, di «mito moderno» se mi passate il termine, una storia che evoca apertamente le strutture mitologiche e la loro capacità di illustrare le contraddizioni e gli abissi dell’animo umano. Così, i personaggi del libro – il sindaco, il parroco, il dottore o la maestra – sono in realtà degli archetipi, proprio come quelli che incontriamo nella mitologia o nella tragedia greche. Non a caso non hanno nome , perché sono chiamati a incarnare forze, figure e idee che vanno ben al di là della loro persona. Ciò detto, in ogni mio romanzo cerco di non lavorare solo sulla storia, ma anche sulla forma stessa della struttura narrativa, cercando di adattarla il più possibile allo spirito dei tempi. Evocare il mito, in questo caso rimanda al tentativo di rintracciare un’architettura essenziale del reale, quasi lo scheletro della società contemporanea attraverso figure che esprimono caratteri e sentimenti universali.

Il mondo in cui viviamo appare immerso nell’odio, eppure il suo romanzo sembra dirci che la viltà e l’indifferenza a volte possono produrre esiti anche peggiori.
In realtà credo che viltà e indifferenza siano solo delle forme più «educate» di odio, più presentabili in società ma che conducono irreparabilmente ai medesimi risultati. Ho l’impressione che il vero motore del mondo sia l’egoismo, che ciascuno di noi è davvero troppo preso da se stesso e le sue faccende per occuparsi di qualcosa o qualcun altro. La figura dell’«altro» ci ispira vuoi indifferenza vuoi odio, il che vuol dire in qualche modo le diverse tonalità di qualcosa che si traduce nel rifiuto se non nel rigetto vero e proprio. Nella storia umana questa presenza è stata spesso vissuta come un arricchimento – qualcuno che arrivava da luoghi a noi fino ad allora sconosciuti e che portava con sé beni o conoscenze che ci erano ignote -, ma oggi è ridotta ad essere vissuta solo come un pericolo. E l’esito di tutto ciò è che stiamo costruendo per gli altri, ma anche per noi stessi, un mondo inumano.

«L’arcipelago del cane» è da questo punto di vista una sorta di «luogo dell’anima», ma ricorda in modo sinistro anche la vecchia Europa. Abbiamo perso la capacità di indignarci?
È vero, ho costruito un paesaggio immaginario che però assomiglia molto all’Europa, come al resto dell’Occidente che passo dopo passo, attraverso questa chiusura verso l’esterno, sta perdendo se stesso e la sua civiltà. Il vero problema è che delle voci come quelle della maestra del romanzo, che vuole provare un’altra via, che non ha paura del cambiamento e dell’incontro, sono ridotte al silenzio, minacciate e ostracizzate. L’importante è che però, proprio come fa lei, non si perda mai la voglia di indignarsi e di reagire. Solo così avremo tutti un futuro.