Il libro che segna l’esordio poetico di Pietro Ingrao reca una data tarda, è il 1986, ma tempestiva rispetto alla calamità dei tempi perché esce nella imminenza della fine del mondo sovietico e dell’impaludarsi della sua memoria brandendo un titolo, «Il dubbio dei vincitori», che somiglia sia alla forma mentis sia alla caratura etico-politica di chi lo ha firmato.

Al suo interno, e in una posizione forte, baricentrica, un distico segnato a propria volta come L’indicibile dei vinti si può leggere alla pari di una dichiarazione di poetica e insieme di una esplicazione del titolo della raccolta stessa, quasi lo rendesse esplicito e lo proseguisse: «L’indicibile dei vinti/ il dubbio dei vincitori».

Il senso deducibile è una dialettica che connette a contrasto alto e basso, potere e impotenza, gloria e umiliazione. Che Ingrao riesca a fissare in maniera tanto fulminante ciò che nel lessico della tradizione marxista si chiama la lotta di classe o, più genericamente, la specularità fra chi sta in alto e scrive la storia (tuttavia sospettando il potenziale inerte e mortifero del suo prevalere) e invece chi la subisce ricevendone un grumo di dolorosa alienazione, è riprova del fatto che la sua testualità si iscrive nell’ordine del pensiero-poesia, non in una opzione di carattere puramente lirico.

Non è affatto un caso che nell’autobiografia, «Volevo la luna» (Einaudi 2006), tornando sulle prime prove poetiche e su una educazione letteraria contrastata o comunque ipotecata dai rigori del regime fascista, egli affermi di avere guardato al grande esempio di Leopardi prima che ai fratelli maggiori della cosiddetta «poesia nuova»; e ricorda, in proposito: «Valse allora per me la risonanza della parola e la successione dei suoi significati, il loro dilatarsi a formare una trama. Incontravo la rottura introdotta nei moduli del canto dal decadentismo europeo: prima di tutto dai francesi che così fortemente incidevano nel gusto e nelle correnti letterarie italiane alle soglie degli anni Trenta. Là incontravo Ungaretti e Montale che mi accendevano nella loro amara diversità, Saba che mi piaceva meno, e i lirici di nuova schiera: da Quasimodo (il primo Quasimodo) a Betocchi sino a Sandro Penna. Cardarelli mi sembrava un cauto retore. Afferravo che alle spalle di quella mia gioventù c’era stata una rivoluzione della cultura europea: un dramma e uno scontro avvenuti prima di me. E avvertivo in qualche modo la grandezza della catastrofe vissuta. Leopardi lo scoprii più avanti nel tempo, e lo amai al di sopra di tutto».

Leopardi si profila dunque al culmine della parabola formativa di Ingrao e funziona, se letto in retrospettiva, quale antidoto alla presunzione di innocenza e all’inconsapevole filisteismo (arroccamento, ascesi, desiderio di non-compromissione coi fatti della storia e del mondo circostante) della vulgata novecentista.

Se perciò è vero che dai maestri vicini Ingrao deduce la scansione sillabata, l’affondo di una parola centripeta, scabra e persino impietrata nella dizione, è vero altrettanto che il pensare, un alto congetturare e meditare, ne sostiene il senso nell’atto stesso del pronunciarla. Scevra di nomi propri e di elementi circostanziali (vale a dire di riferimenti espliciti allo spazio e al tempo), essa recupera in termini di profondità cognitiva ciò che sembra perdere, o eliminare a priori, in termini di transitività espressiva.

Per lo più si tratta di epigrammi, talora di vere e proprie epigrafi in cui lo scatto della clausola funge non tanto da chiusura quanto da apertura che interpella il lettore, avanzando un dubbio o una sospensiva del senso compiuto ovvero una eversione dell’automatismo percettivo. Come se il poeta ogni volta formulasse, per sé e per chi lo sta leggendo, una domanda dalla risposta tuttavia impensabile nel qui-e-ora.

Per Ingrao, la poesia è infatti non una risposta anticipata o differita ai problemi del fare e dell’agire ma, al contrario, è la domanda perpetua sul senso del fare e dell’agire, individuale e collettivo: è un progetto che si vieta la rigidezza di esserlo o, piuttosto, è un bilancio spettrale del già fatto e nel frattempo una ipotesi (una domanda, ancora una volta) su quanto è ancora da fare per dare senso e prospettiva integralmente umana alla vita degli uomini.

L’ultimo testo de Il dubbio dei vincitori dice così: «Chi nel campo arde/ fascine/ mai saprà/ di che sete nel consumarsi/ è l’acre fumo/ che fugge». Questo vuol dire che nel patire dal basso l’esistenza e nel venir meno della sconfitta si cela un potenziale irredento, il disegno più labile di una voluta di fumo, da cui si intravede a malapena, nella sua drammatica incertezza, quanto l’uomo di Treviri chiamò il sogno di una cosa. Sono sempre segni incerti, schegge meteoritiche, frammenti che sembrano caduti quaggiù, per usare la parola di Mallarmé, da oscuri disastri.

Alla presentazione di quel primo libro (a Siena nel febbraio del 1987, presenti l’autore e fra gli altri Alberto Olivetti e Gianni Scalia i cui atti sono contenuti nel volumetto Conversazione su «Il dubbio dei vincitori», Cadmo 2002), Franco Fortini colse il riflesso speculare del titolo: «I vinti sono anche quella parte di noi medesimi che ha capitolato non di fronte al nemico ma nella rinuncia e nel compromesso; ed i vincitori sono anche quella parte di noi medesimi che non crede di dover provare rimorso per la propria (derisoria) vittoria».

È un tema, anzi una profonda persuasione, che Pietro Ingrao ha articolato nei due volumi successivi («L’alta febbre del fare», 1994, e «Variazioni serali», uscito nel 2000 con un bel risvolto a firma di Enrico Testa) che richiamano il primo disponendosi alla maniera di una suite. Nell’ultimo, una poesia intitolata Poteri serba per tutti noi il più necessario fra gli ammonimenti:

«E quando siete perduti

chiedete alla vostra immaginazione.

Cercate in comune

la fallacia degli ordini

declinati31

nella pupilla secreta

dei vincitori.

Senza giurare,

quando il chiaro dorme, spalancate le fonti.

Ponete i nomi».