Nell’ultima settimana il gigante dell’e-commerce Amazon si è ritrovato a fare i conti con le variabili di permalosità del secondo paese più popoloso al mondo. Ironicamente, come spesso capita quando si tratta di India, le fiammate di indignazione patriottica, prima di divampare entro i confini telematici della Rete indiana, scaturiscono da scintille di ultranazionalismo della diaspora: un esercito di zelanti difensori dell’orgoglio patrio e/o hindu stabilmente residenti in Occidente,

TUTTO PARTE DAL CANADA All’inizio di gennaio una serie di tweet provenienti dal Canada hanno portato all’attenzione della comunità online indiana l’incresciosa messa in vendita su Amazon di zerbini raffiguranti il tricolore indiano. Un affronto, secondo gli utenti indiani, alla sacralità della bandiera simbolo dell’India indipendente.

Dopo la bandiera, stavolta in vendita su Amazon Usa, è stato il turno delle infradito con la faccia del Mahatma Gandhi, fino ad arrivare, ieri, alla denuncia di skateboard venduti online decorati con immagini di Ganesh, il dio dalla faccia di elefante già protagonista incontrastato della paccottiglia spirituale globalizzata da almeno quattro decenni.

Il problema del merchandising che «urta la sensibilità degli indiani» ha a che fare con i piedi, con la pancia e con la testa di un corpo-nazione che agisce in un mondo dove molti confini di ieri sono stati abbattuti dalla tecnologia di oggi, non sempre per il meglio.

Partiamo dai piedi, in India considerati estremità deprecabili del proprio corpo e per questo soggette a una serie di regole non scritte di dominio comune: è vero che ci si toglie le scarpe prima di entrare in casa o, a maggior ragione, nei luoghi sacri, ma la pianta del piede non deve mai essere rivolta verso qualcuno o qualcosa di rispettabile (e stare a gambe incrociate, di fatto, è uno stratagemma salutare a questo punto non casuale); quando inavvertitamente si urta il piede di qualcun altro, occorre immediatamente scusarsi portando le dita alla fronte, premura che in India non viene estesa a nessun’altra superficie corporea; infine, entrando nel campo del divino e del simbolico, non credo esista oltraggio più grande del calpestare, a scelta, una raffigurazione di un dio hindu, o la bandiera, o peggio ancora il Mahatma Gandhi, oggetto di un’idolatria pari a quella del pantheon ultraterreno.

L’IMPORTANZA DELL’ETICHETTA Le peculiarità dell’etichetta indiana, non da oggi, non ha potuto non perdersi nell’appiattimento dell’estetica da gadget internazionale in cui l’oggetto – lo zerbino, l’infradito, lo skateboard – viene «customizzato» andando incontro alle presunte preferenze di un target globalizzato in cerca di segni che lo distinguano dagli «altri». In quest’ottica è più facile capire la strategia di marketing di Amazon, che in Occidente vende zerbini con tricolori di ogni nazionalità, Union Jack e il resto del design nazionalistico senza temere, fino ad ora, tweetstorm di irlandesi indignati da un tappetino verde, bianco e arancione.

Con l’India e, soprattutto, con la sua pancia, occorre essere più cauti. Specie in questi anni di amministrazione Modi, con un primo ministro conservatore e hindu che ha fatto dell’orgoglio indiano il pilastro della propria strategia comunicativa in India e all’estero, chiamando a raccolta un popolo sparso ai quattro angoli della Terra in uno sforzo collettivo per, letteralmente, «Make India Great Again». Grazie all’abbattimento delle barriere spaziotemporali che limitavano il coinvolgimento negli affari di casa di un indiano della diaspora a puntuali rimesse spedite via Western Union o a sporadici ritorni in patria carichi di aneddoti, regali e senso di superiorità, ora coi social network anche un «Non Resident Indian» dal suo salotto del New Jersey può farsi «pancia del paese», entrando immediatamente nel radar di una classe dirigente indiana – la testa – mai così «tech savvy».

ESCLUSO NARENDRA MODI, che gestisce i propri social come un megafono alternativo al rapporto con la stampa internazionale, la ministra degli esteri Sushma Swaraj ha brillato per un utilizzo del proprio account Twitter molto intraprendente, azzerando le tradizionali barriere che per decenni hanno diviso «l’uomo comune» indiano dai «babu» della burocrazia e della politica.

Swaraj, destituita di ogni responsabilità effettiva nella gestione degli affari esteri indiani interamente appaltati all’ufficio del primo ministro, ha trovato nei cinguettii online l’elisir di lunga vita per la propria base elettorale. E, nel caso di Amazon, si è fatta trovare pronta, riprendendo le critiche per lo zerbino della vergogna fatte da diversi «indiani annoiati», elevandole a presa di posizione ministeriale ufficiale. In tre tweet Swaraj prima esorta la Indian High Commission in Canada a portare il tema dello zerbino ai piani alti dell’amministrazione di Ottawa, poi pretende scuse «immediate e incondizionate» da Amazon e, in ultimo, minaccia ripercussioni sui visti degli impiegati di Amazon in India se la questione non sarà risolta in tempi brevi.

Amazon – che nel mercato online indiano in enorme crescita nel 2016 ha investito 70 miliardi di rupie (963 milioni di euro) con l’obiettivo di superare il leader del settore locale, Flipkart – immediatamente fa arrivare il proprio mea culpa e toglie lo zerbino dal market canadese. Ma non basta.

LA NOTIZIA, RILANCIATA in tutto il mondo grazie alla vidimazione ministeriale, innesca un effetto a catena per cui ogni indiano dotato di connessione internet acquisisce il diritto di stigmatizzare la vendita di gadget irrispettosi della «sensibilità indiana», trovando nelle file del governo a New Delhi un corpo amministrativo smanioso di aggiungersi alla Guerra Santa per il rispetto internazionale. Emerge così l’indignazione, subito raccontata come sentimento collettivo, per le infradito del Mahatma, a cui segue un’altra serie di tweet passivo-aggressivi di Shaktikanta Das, segretario del ministero dell’economia vicino alla pensione fino ad ora noto principalmente per l’infausto compito di spiegare al popolo indiano, durante sofferte conferenze stampa, le rocambolesche evoluzioni della demonetizzazione.

Das, mentre monta il caso delle ciabatte di plastica col Padre della Nazione, in una serie di tweet scrive: «Amazon, faresti bene a comportarti come si deve. Finiscila di mancare di rispetto ai simboli e alle icone indiane. L’indifferenza sarà a tuo rischio e pericolo». Inserendo la volubilità caratteriale indiana all’interno delle strategie di apertura al mercato globale, Das riassume: «Rimaniamo fermi nell’impegno per le riforme economiche, per una semplificazione dell’ambiente del business e per l’apertura degli scambi. A volte però diventiamo permalosi quando si tratta delle nostre icone».

Allo zelo 2.0 dell’amministrazione Modi si aggiunge, fortunatamente, anche il vivo imbarazzo della stragrande maggioranza degli indiani, che trova assurde queste prese di posizione così scomposte e controproducenti da parte di chi dovrebbe rappresentare al meglio il proprio paese. Il problema, insomma, di quando la testa si fa pancia, con la scusa dei piedi.