Lo scorso ottobre si è spenta Linda Nochlin, era del 1931. Originaria di Brooklyn, Nochlin (nata Weinberg) è stata per generazioni di studiosi una campionessa di sagacia e coraggio intellettuale. Il suo articolo Perché non ci sono state grandi artiste?, apparso nel 1971, è tuttora un caposaldo della letteratura femminista e della critica d’arte: un manifesto contro l’uso politico del sesso e contro l’imposizione di stereotipi surrettiziamente introdotti a scopo discriminatorio quali realtà naturali nella narrazione dominante. La forza dell’arte, inclusa quella d’avanguardia, è satura di desiderio sessuale; ciò talvolta ha, in maniera spesso inconscia, favorito piuttosto che ostacolato l’affermazione di valori di classe e il perpetuarsi di strutture di potere. Nochlin ha mostrato come riconoscere e scardinare simili meccanismi ideologici.
In Italia la si ricorda anche per un’altra opera, datata 1971 ed edita nel 1979 con il titolo Realismo. Da allora, a eccezione di un catalogo su Le grandi pittrici: 1550-1950, non sono stati tradotti in italiano altri suoi materiali, benché lei abbia continuato a scrivere cose interessanti.
Esce ora postumo per Thames & Hudson Misère The Visual Representation of Misery in the 19th Century (pp. 160, $ 35,00), un saggio nel quale si combinano gli interessi principali della studiosa americana: la pittura dell’Ottocento, la storia delle donne e il rapporto tra cultura visuale e giustizia sociale. Nochlin prende spunto da un’inchiesta pubblicata in Francia nel 1840 da Eugène Buret (1810-1842), De la misère des classes laborieuses en Angleterre et en France. Qui Buret presentava il concetto di miseria, intesa quale condizione di estremo disagio psicologico, oltre che fisico, per denunciare le nefaste conseguenze del progresso industriale. Tuttavia Nochlin, che non intende sostenere nostalgici ritorni a scenari premoderni, studia l’emarginazione, l’abiezione e l’afflizione, ovvero tutti i fenomeni riconducibili alla nozione di misère di Buret, per capire come sono stati trasposti in termini visuali. L’indagine comprende l’arte cólta ma anche le forme popolari d’illustrazione, legate alla comunicazione di massa in un’epoca che aspirava all’obiettività pur non potendo ancora fare affidamento sul mezzo fotografico. Vengono quindi proposti alcuni casi di studio che dalla metà dell’Ottocento spaziano con disinvoltura persino eccessiva fino al 2016, per osservare quali strategie espressive siano riuscite a rendere in modo più convincente la realtà dei misérables, suscitando compassione e solidarietà anziché repulsione o scherno.
La miseria non ha niente di grazioso, pertanto la sua rappresentazione non può concedere nulla al gusto, perché l’eleganza è d’intralcio all’obiettività. Il XIX secolo aveva sviluppato un’ossessione per l’accuratezza della visione, che Nochlin definisce «proto-documentarismo»: una sorta di fotogiornalismo ante litteram. E, nell’urgenza di riportare fedelmente il dato oggettivo, il proto-documentarismo rinunciava alla bellezza dell’immagine e forniva attraverso l’imperfezione formale la riprova del giusto approccio. Il resto era sentimentalismo, o mitologia sociale.
Ma è chiaro che la rinuncia al bello convenzionale ha finito per codificarsi in canone estetico, generando a sua volta una serie di cliché contro cui si sono ribellati gli artisti nei decenni successivi. Mentre nel XIX secolo il problema di chi voleva documentare la miseria era l’aderenza alla verità fattuale, tra XX e XXI secolo si è passati alla questione sulla legittimità etica della rappresentazione stessa. Prendendo ad esempio il lavoro di Martha Rosler e Doris Salcedo, Nochlin biasima l’atteggiamento estetizzante o paternalistico dei contemporanei nella raffigurazione del povero, del reietto e dello sconfitto. «Perché oggi certa critica considera immorale descrivere queste figure? Perché le descrizioni verbali sembrano meno degradanti?». È un argomento tempestivo, che solleva dubbi sulla capacità dell’arte di registrare oggi la sofferenza umana. La rappresentazione dell’oppresso è compassione o ulteriore e più subdolo sfruttamento? Quando è denuncia e quando è voyeurismo? Evitare di ritrarre o viceversa esporre sfacciatamente i corpi degli sfruttati aiuta davvero a proteggerli da manipolazioni e perversioni? L’arte è una faccenda controversa.
The Gender of Misery. Sempre seguendo Buret, Nochlin segnala che la misère è stata, a un tempo, causa ed effetto della prostituzione femminile. Tuttavia, nel medesimo modo in cui nella sincera preoccupazione di Buret traspare un fondo di misogina, vizio che nell’Ottocento pervade l’intera cultura francese e quindi europea, così i corpi femminili dipinti da Toulouse-Lautrec in Rue de Moulins, malgrado l’occhio empatico del pittore, finiscono risucchiati dalla risacca del desiderio carnale nell’abisso senza fine dell’abiezione spacciata per condizione naturale. Senza contare che non solo mancano testimonianze delle donne di allora riguardo allo svilimento del corpo femminile, ma i «grandi artisti» – non di rado sifilitici frequentatori di postriboli (Baudelaire, Flaubert, Manet, ecc.) – hanno sempre risparmiato all’uomo l’umiliante spettacolo del suo corpo in vili posture: «Nell’arte colta nessuna figura maschile si cala le mutande nell’interesse della scienza per prevenire la diffusione di malattie veneree».
En passant Nochlin definisce «farsesca» la pretesa di Splendeurs et misères: images de la prostitution, 1850-1910, esposizione tenutasi al Musée d’Orsay nel 2015-2016, di trattare con distacco scientifico il tema della prostituzione con annessa produzione pornografica, quasi fosse una panoramica sulla Natura morta. Nochlin rimprovera inoltre alla mostra parigina di aver ignorato ogni distinzione tra le lavoratrici del sesso sfruttate nei bordelli e per strada, e le Grandes horizontales dei boudoir borghesi; e di aver incoraggiato «il pubblico del museo, soprattutto la metà maschile, a sguazzare compiaciuto nell’arte erotica, con la giustificazione della sua valenza “didattica”».
Misère non ambisce a essere esaustivo. Non necessariamente gli artisti che convoca sono quelli che ci si aspetterebbe in un simile contesto: se da un lato risalta l’assenza di Daumier, dall’altro Nochlin riscatta dall’oblio e riabilita dall’infamia di sterile accademista Fernand Pelez (1848-1913). Ognuno dei cinque capitoli componenti il libro discute in modo relativamente autonomo un soggetto caro all’autrice. L’indipendenza reciproca delle singole parti, assieme alla quantità e all’estensione cronologica dei riferimenti, provocano però un disorientamento che né l’Introduzione né le Conclusioni riescono a mitigare. Nonostante l’ottimo corredo illustrativo che lo impingua, il volume risulta breve, tronco: un abbozzo in fase di elaborazione. Che sia per rigetto del fallologocentrismo, oppure perché cuce insieme testi di diversa origine, o più banalmente per mancanza di tempo, in ogni caso il discorso sviluppato in Misère è brillante ma poco uniforme, qua e là tanto perentorio e precipitoso nelle affermazioni da andare in cortocircuito. Ad esempio: Nochlin istituisce una serie di paragoni sul tema del mendicante, accostando tra loro Géricault, Goya, Rembrandt… Per quanto stimolanti, tali raffronti si fondano quasi esclusivamente sull’analisi dei dettagli narrativi per evidenziare il superiore spessore etico di Géricault. Eppure, se la posta in gioco è smuovere lo spettatore affinché reagisca dinanzi all’orrore della miseria, allora il disprezzo filo-aristocratico di Goya per il povero accattone ha, per contrasto, un impatto molto più incisivo di quello del pur benintenzionato ma didascalico Géricault.