Èquasi sicuro che di diventare un mito, l’«immagine della rivoluzione sessuale» e il sogno erotico per più generazioni, la ragazza nata Linda Susan Boreman da una famiglia working class del Bronx, non se lo sarebbe mai aspettato. Eppure nella solitudine della sua casa Linda Lovelace si tormenta, quasi che quel mito come spesso accade (pensiamo a Marilyn) le abbia avvelenato la vita. Lovelace è l’attesissimo biopic dedicato all’indimenticabile protagonista di Gola profonda, Deep Throat, che arriva dopo un anno dalla sua presentazione a Sundance e alla Berlinale anche in Italia (in un fine settimana affollatissimo da film eccentrici, in concorrenza, ma sono i soliti misteri del mercato nostrano).

Quando uscì nel 1972, Gola Profonda era un film realizzato con un budget minimo – la stessa Linda, come racconterà poi, era stata pagata un migliaio di dollari – ma che da quel momento incasserà cifre straordinarie, e una fama mondiale, tanto da essere definito il Via col vento del porno. Gerard Damiano era riuscito a liberare il porno dalla stretta nicchia dell’hard, e a imporre al nostro immaginario una creatura con la clitoride in fondo alla gola, in sintonia con l’esplosione della controcultura. E mentre le code davanti ai cinema crescevano, e il film diveniva un culto fuori dal tempo, la sua protagonista progressivamente ne prendeva le distanze, dicendo anni dopo che era stata costretta a farlo e chi aveva goduto a vederlo era come se lo avesse fatto davanti a uno stupro.

Lovelace è diretto da Robert Epstein e Jeffrey Friedman, gli autori del fondamentale The Celluloid Closet, ispirato al libro di Vito Russo, che rivisita Hollywood in chiave gay e lesbica e transgender, e de L’Urlo (con James Franco, che appare anche in questo), la vita di Ginsberg nei versi radicali della sua poesia.

«Gola Profonda arriva in un momento chiave nella nostra storia – dicono i registi – Quando cioè iniziano la rivoluzione sessuale, e il movimento femminista. Ma anche la diffusione del porno fino alle forme che tutti noi oggi possiamo vedere sui nostri telefonini».

Lovelace comincia in Florida dove la famiglia di Linda – a cui da vita con diligente irruenza Amanda Seyfried – si è trasferita. Siamo agli inizi degli anni Settanta, intorno alla ragazza il mondo è in fermento, l’amica più disinibita le slaccia il reggiseno del bikini ma Linda appare terrorizzata: la madre Dorothy (irriconoscibile Sharon Stone) molto cattolica, con la statua di Maria in giardino, non permette trasgressioni. In casa la faccia di Nixon, idolo del padre di Linda poliziotto, campeggia sullo schermo del televisore in bianco e nero. Lei, e gisutamente, vuole solo scappare via, fuggire da quella famiglia che la soffoca, dalla madre che l’anno prima l’ha costretta a abbandonare il suo bambino che aspettava dandolo in adozione, dagli orari rigidi, dalle sue paure. L’occasione arriva con Chuck Traynor (Peter Sarsgaard), conosciuto mentre danza sulla pista di pattinaggio. Si guardano, si piacciono. Lui è più grande, divertente, seduttivo, la guida nel sesso contro le sue inibizioni e paure, anche la più radicata: il pompino, di cui le insegna tecniche e segreti per non soffocare mentre la fotografa e la filma in superotto. Quasi un preludio a quanto accadrà ma anche, almeno in quel momento, un’avventura spregiudicata, romantica, ribelle…

Epstein e Friedman si sono ispirati a Ordeal, l’autobiografia scritta dall’attrice nell’80, dopo essersi anche sottoposta alla macchina della verità per far conoscere la propria versione della storia, e costruire un’immagine di sè diversa da quella singola apparizione: «Una carriera che è durata appena diciassette giorni le è costata l’intera vita trascorsa a cercare di riabilitarsi davanti al mondo».

L’impressione è quella di una scelta narrativa «controllata» e piuttosto lineare. Dalla prima immagine, in cui vediamo Linda nella vasca da bagno, il trucco sfatto mentre la voce della tv parla di Gola profonda , appare evidente che la chiave i «interpretativa» dei due registi è quella di un Mito collettivo che fagocita se stesso. La donna è stata risucchiata in qualcosa che è più grande di lei, che la divora. Eppure qualcuno che l’ha conosciuta la racconta come la «tipica donna americana», molto semplice e simpatica.

Dove è dunque Linda Lovelace? Probabilmente ovunque e da nessuna parte. Dicono i registi: «Ci sono molte contraddizioni che emergono nella figura di Linda Lovelace, questo è indubbio. Cresce in una famiglia religiosa, la madre soprattutto, esce di casa e finisce nella mani di Chuck Traynor, che la convince a fare il porno. A ventidue anni diventa una star mondiale e solo nove anni più tardi fugge da quel mondo con cui decide di chiudere per sempre. Volevamo trovare una struttura che raccontasse questi passaggi legandoli ai suoi sentimenti e stati d’animo più che seguire un ordine semplicemente cronologico».

Curatissimo e molto glamour nei dettagli vintage degli anni settanta, camice,pantaloni, shorts di jeans, pettinature, Lovelace però manca di sfumature, e i chiaroscuri del personaggio finiscono per coincidere con quell’immagine della ragazzetta dai sogni infranti. Linda a fare il cinema non sembrava pensarci affatto, il suo era semplicemente un sogno di felicità col marito di cui sapeva poco, e anche lì come da manuale quando lo ripesca in galera scopre che non è il principe azzurro che pensava.

I registi le sono vicini, empatizzano con lei, ma è forse questo a limitare la loro libertà: all’«icona» Linda, con lo spazio del possibile che comporta, preferiscono la «ragazza» Linda, il romanzesco della vita contro la mitologia. Ma nell’una e nell’altra le separazioni non sono mai troppo nette.