Ci risiamo. Durante le giornate che hanno visto Cina e Russia chiudere accordi per un valore di 400 milioni di dollari, mettere a punto i dettagli per il futuro negoziato sul gas, e offrire una risposta congiunta alla crisi ucraina, gli Stati uniti hanno fatto sentire la propria presenza, accusando cinque cinesi – per la prima volta in modo ufficiale – di spionaggio industriale e furto di dati. I magistrati Usa hanno chiesto l’estradizione dei tecnici informatici cinesi, considerati gli elementi di punta di quell’Unità 61398, che da tempo Washington considera il covo dei pirati cinesi, dediti a scorrerie di natura informatica.

Tempo fa un report della Mandiant, società con un ampio interesse nel settore della sicurezza dei dati americana, aveva definito l’Unità 61398, organizzata all’interno di un palazzo anonimo a Shanghai, come una squadra speciale dell’esercito cinese dedita alla cyberwar e comandata direttamente dal governo cinese.

La risposta del Partito comunista è stata durissima: rifiutato, naturalmente, l’ordine di estradizione, Pechino ha accusato l’amministrazione Obama di ipocrisia, richiamando l’ambasciatore, fresco di nomina. «Gli Stati uniti devono alla Cina ed al mondo una spiegazione dei loro comportamenti che sono stati ampiamente condannati dalla comunità internazionale» ha fatto sapere il ministero degli esteri cinese, «invece di cercare di cambiare le carte in tavola puntando il dito contro la Cina in modo arbitrario e ipocrita». Insieme alla convocazione dell’ambasciatore, Pechino ha già adottato delle misure di risposta alla mossa di Washington, ordinando il termine delle attività del gruppo di lavoro congiunto sulla «cyber security» a causa, «della mancanza di sincerità da parte americana nella ricerca di soluzione delle questioni attraverso il dialogo e la cooperazione».

In realtà, queste genere di scontri tra Cina e Stati uniti, non capitano certo per caso. Ci sono in ballo diversi fattori geopolitici, che producono la necessità da parte degli Stati uniti di fare sentire il fiato sul collo ai cinesi. In primo luogo l’accusa degli Usa è una risposta all’incontro tra Xi Jinping e Putin, che rischia di creare un pericoloso fronte anti Nato e che potrebbe complicare non poco i giochi europei – e di conseguenza statunitensi – per quanto riguarda il business del gas.

Gli accordi sino-russi sono i frutti di un lavoro diplomatico clamoroso, iniziato con la prima visita di Xi Jinping a Mosca, poco dopo la sua nomina a presidente della Repubblica popolare. E ad ora nero su bianco c’è un contratto di 400 milioni di dollari per la costruzione di un ponte attraverso il fiume Amur, che collegherà il nord est della Cina alla Siberia, una raffineria nella città cinese di Tianjin, sempre più una sorta di propaggine della capitale Pechino, una maggior cooperazione nello sfruttamento delle miniere di carbone e nello sviluppo di infrastrutture per il trasporto in Russia, la costruzione di centrali elettriche in Russia per aumentare le esportazioni di energia in Cina.

Xi e Putin hanno anche firmato una una richiesta congiunta perché i paesi della comunità internazionale «cessino di usare il linguaggio delle sanzioni unilaterali e di incoraggiare attività tese a cambiare il sistema costituzionale di un paese straniero», con un chiaro riferimento all’Ucraina.

La mossa statunitense cerca quindi da un lato di disturbare questo accordo, dall’altro di spingere sulla sensazione di accerchiamento cinese in Asia; non a caso avviene in un momento difficile per Pechino, alle prese con un nazionalismo crescente nella regione (compresa la vittoria elettorale di Modi in India) e che per lo più ha toni anticinesi, come dimostrato recentemente dal Vietnam, o come dimostra da tempo il Giappone di Abe. Paesi che ormai contano sulla vicinanza degli Usa, come ad esempio le Filippine che hanno offerto a Washington le proprie basi, per provare a fare fronte all’arroganza diplomatica cinese in tema di mare conteso.

Infine gli Usa si muovono per puro spirito di difesa delle proprie aziende impegnate nel sempre più complicato e difficile mercato cinese. Nelle settimane scorse c’è stata l’ufficializzazione da parte di Pechino delle accuse di corruzione nei confronti della dirigenza in Cina, di Gsk, multinazionale faramaceutica britannica. Il caso ha l’intenzionalità di un avviso, secondo il detto locale che vuole la scimmia allertata, alla morte di un gallo. Gsk è un esempio: è finito, dice la dirigenza cinese, il tempo del far west. D’ora in avanti, ci sono regole ben precise.