Pur tra mille inconvenienti, difficoltà e ritardi rispetto alle esigenze di Mussolini, il ratto della stele di Axum e il suo trapianto sul suolo romano, nel 1937, furono un prodigio di rapidità ed efficienza. Al contrario, quando si è trattato di restituire il maltolto, con il Trattato di pace del 1947 che all’art. 37 imponeva a chiare lettere il ritorno del monumento e degli altri tesori razziati, [/V_INIZIO]la sveltezza di mano e d’ingegno ha lasciato il posto a una stucchevole melina: oltre sessant’anni di scuse e pretesti, una sequela infinita di ipocrisie, negligenze, irritanti tira-e-molla, di insipienze post-fasciste assortite, di costi lievitati, calcoli politici e balletti diplomatici imbarazzanti.

La surreale vicenda trova ora una puntuale ricostruzione in un libro di Massimiliano Santi, La stele di Axum da bottino di guerra a patrimonio dell’umanità – Una storia italiana (Mimesis, pp. 262, euro 20)… Sintesi di una monumentale ricerca, che parte dalle origini della civiltà axumita – una storia a parte, per risonanze bibliche e interconnessioni geopolitiche, tra quelle degli antichi regni africani – e arriva all’agognata restituzione, con sigillo finale dell’Unesco che dichiara «patrimonio dell’umanità» le rovine sulle rive del Mai Heggià con al centro l’obelisco. Nel mezzo un teatrino popolato da archeologi e ingegneri sballotatti dai governi, primi ministri e presidenti, gli ostruzionismi cocciuti dei vari Storace, Buontempo e Gramazio, sgarbi storici e Sgarbi quotidiani, l’archeologia e il diritto internazionale in balìa degli interessi più biechi, con giustificazioni che non reggono neanche quando vagamente plausibili (l’obelisco si è inserito perfettamente nel contesto), figuriamoci quando totalmente demenziali (è vero, non si dovrebbe fare, ma Napoleone lo ha fatto a noi e noi lo facciamo a loro…).

Nessuno ricorda che a massacri come quello di Debrà Libanòs, l’Italia fascista dispiega uno spirito archeo-predatorio che in breve diventa scempio. Il libro ricorda, insieme allo studioso Monneret de Villard (che il regime fascista aveva incaricato di sovrintendere al trasferimento) come il sito di Axum, la seconda Gerusalemme, abbia subito più danni in un anno di occupazione che durante i quindici secoli precedenti. Quando si dice il magic touch italiano.

In tempi molto più recenti, quando la gelatinosa ed estenuante trattativa sembrava conclusa, scoppia l’ennesima guerra con l’Eritrea, poi le piogge, e ancora intralci per ritardare la consegna. Fino a che un fulmine beffardo non si abbatte sulla stele che tarda a schiodare da piazza Capena. Danni, spese che lievitano, tempi che si dilatano ancora.

Altro che lo scatto imperioso di muscoli e neuroni con cui nel 1937 gli italici conquistatori sradicarono il nobile monolite dalla terra dei vinti, ne imbracarono per bene i giganteschi blocchi di «bigio granito africano» sui rimorchi e fecero a fette le montagne, pur di trascinarlo fino a Massaua, e di qui imbarcarlo alla volta dell’Italia. Una tigna davvero degna di miglior causa. Pari soltanto a quella con cui i governanti di Addis Abeba hanno tenuto il punto, riuscendo a riavere indietro la stele, nel 2008, in tempo utile per la fine del secondo millennio etiopico. Resta la condotta sconcertante tenuta dall’Italia, tale da conferire alla controparte – da Selassie a Zenawi, passando per Menghistu – una patente di credibilità del tutto fuori luogo, di fronte al massacro interno di opposizioni e minoranze.

Ora resta inevasa la proposta avanzata da Angelo Del Boca, di sostituire la stele con qualcosa che ricordi i crimini coloniali dell’Italia e il sacrificio di quanti combatterono per la libertà del loro paese. Lo ricorda lo stesso Del Boca nell’introduzione. Insieme al fatto che la proposta di istituire «una Giornata della Memoria per i 500 mila africani uccisi dai governi Crispi, Giolitti e Mussolini, sacrificati sull’altare del prestigio nazionale», si è persa negli smemorati meandri del Parlamento. «500 mila africani senza nome e senza volto – scrive lo storico –, uccisi due volte».