L’8 giugno 2016 la Squadra Mobile di Chieti ha presentato, nel corso di una grottesca conferenza stampa, esibendole quasi come trofei, addirittura sei piante di marijuana sequestrate all’interno dell’abitazione del pianista chietino Fabrizio Pellegrini, «colpevole» d’essersi ostinato a coltivare cannabis per curarsi dalla fibromialgia, una grave e invalidante patologia che gli procura dolori insopportabili. In effetti, come certificano i medici da anni è questa l’unica cura realmente efficace, ma la Asl di Chieti l’8 ottobre 2010 scrive per dirgli che, nonostante lo stato d’ingenza del paziente, non è «nelle intenzioni di questa Azienda assumere l’onere economico del farmaco richiesto» (Bedrocan).

Lo stato d’indigenza e la malattia finiscono dunque per rappresentare una “colpa” per la cui espiazione, sino al 2 agosto, è stato ristretto nel carcere di Chieti in condizioni inumane, privato dell’unica cura da cui trae giovamento. Trattato da criminale, solo per aver scelto di coltivare la sua medicina naturale, piuttosto che rivolgersi al mercato nero.

Ma com’è possibile che un malato privo di mezzi che coltiva cannabis per uso esclusivamente terapeutico possa esser trattato alla stregua uno spacciatore? Una vicenda assurda e kafkiana che, inevitabilmente, sembra voler ripropone, con prepotente urgenza, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 75 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in relazione ai principi di ragionevolezza, uguaglianza e di offensività, quali ricavabili dagli articoli 3, 13 comma secondo, 25 comma secondo e 27 comma terzo della Costituzione nella parte in cui – secondo il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità – non include tra le condotte assoggettate a mere sanzioni amministrative anche quella di coltivazione di piante di cannabis, laddove finalizzata all’esclusivo uso terapeutico della sostanza stupefacente.

Nel caso di Fabrizio è inoltre quanto mai doveroso ipotizzare una chiara violazione dell’art. 32 della Costituzione, posto che la coltivazione della cannabis ha rappresentato un vero e proprio stato di necessità, comunque una scelta obbligata, visto che, negata la possibilità da parte della Asl di ricevere la cura a base di cannabis gratuitamente, si è visto costretto a coltivarla a causa dello stato d’indigenza.

Una fattispecie unica, si spera irripetibile, al punto da poter consentire di riproporre con elementi d’assoluta novità la questione di legittimità costituzionale anche dopo il recente rigetto pronunziato dalla Corte Costituzionale (sentenza del 9 marzo – 20 maggio 2016). Nel corso del giudizio direttissimo fissato dinanzi al Tribunale di Chieti, per l’udienza dell’8 settembre, riproporrò dunque questa questione, così come intende fare l’avv. Giuseppe Rossodivita nel «simultaneus processus» fissato dinanzi al Tribunale di Siena a carico di Rita Bernardini, accusata d’aver coltivato e ceduto cannabis a malati ai quali tale cura era stata prescritta dai medici.

In effetti, mentre i veri spacciatori se la ridono, Fabrizio è stato richiuso per ben 56 giorni dentro una cella del carcere di Chieti insieme a sei compagni, in una condizione di palese violazione dell’art. 3 Cedu (divieto di tortura) e dell’art. 27 della Carta.

Queste le contraddizioni del proibizionismo e dell’attuale quadro normativo. Queste le assurde e grottesche conseguenze dell’omessa applicazione in Abruzzo della legge regionale istitutiva del garante dei detenuti e di quella che consente la coltivazione della cannabis per uso terapeutico.

Ma per fortuna nella Regione di origine di Marco Pannella opera già, come garante di fatto e a titolo puramente gratuito, la radicale Rita Bernardini ed è grazie al suo interessamento che Fabrizio Pellegrini è tornato a vivere.

*Avvocato, legale di Fabrizio Pellegrini, segretario di Amnistia Giustizia Libertà Abruzzi