Pur volendo assecondare la vulgata della «governabilità» (che non è data dai numeri, ma dalla capacità di mediazione politica) va detto, senza equivoci, che la legge cosiddetta Italicum è scritta con inchiostro incostituzionale uscito dalla penna di chi non ha neanche letto la sentenza n. 1/2014 della Consulta (quella per intenderci che ha abrogato il Porcellum) o se l’ha letta non l’ha capita.

Il che è peggio data la chiarezza con cui è scritta.

Per prima cosa la Corte Costituzionale dice che «il meccanismo premiale è foriero di una eccessiva sovrarappresentazione della lista di maggioranza relativa in quanto consente ad una lista che abbia ottenuto un numero di voti relativamente esiguo di acquisire la maggioranza assoluta dei seggi».

Nel Porcellum ciò avveniva senza l’individuazione di una soglia minima di voti, cioè chi prendeva un voto in più si assicurava il premio e la maggioranza dei seggi alla Camera.

Bene. Cosa fanno le menti che hanno pensato l’Italicum? Individuano appunto la soglia minima, pensando così di soddisfare le esigenze richiamate dalla Corte.

E la fissano – la soglia minima – al 40%, percentuale difficilissima da raggiungere per un solo partito (anche se all’epoca della approvazione della legge il Pd riteneva di arrivarci ed è questo il motivo della soglia e della legge «ad partitum») così che si debba passare al secondo turno.

E QUI STA IL TRUCCO, smaccato e inaccettabile: in caso – come detto probabilissimo – che al primo turno nessun partito consegua il 40%, il secondo turno si dovrebbe svolgere tra i primi due partiti che abbiano ottenuto, ad esempio (ma è un esempio molto verosimile), il 25% e il 20%.

A questo punto vincerebbe – prendendo il 54% dei seggi (cioè 340 su 630) – chi dovesse ottenere anche un solo voto in più, senza soglie e percentuali. Così che in teoria il partito del 25% (o del 20%) potrebbe vincere finanche ottenendo anche un numero di voti inferiore rispetto al primo turno e, tuttavia, raggiungendo il risultato di vedersi assegnato il 54% dei seggi.

E questa è senz’altro una forzatura, per niente democratica, e anticostituzionale.

Dunque, fatta la legge, trovato l’inganno, con un comportamento e un pensiero non propriamente da statisti, per usare un eufemismo.

ANCORA PIÙ CHIARO È il tradimento della decisione della Corte sul tema preferenze.

L’Italicum ritiene di risolvere la questione posta (cioè la inibizione alla scelta dell’elettore obbligato a votare liste preparate dalle segreterie dei partiti) con liste «corte» al posto delle liste lunghe. In questo modo, secondo gli statisti redattori della legge elettorale, il candidato sarebbe «riconoscibile».

Diamo semplicemente la parola alla Corte Costituzionale: «Una simile disciplina (la cosiddetta Porcellum) priva l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentati, scelta che è totalmente rimessa ai partiti».

E ancora: «Già in altra occasione la Corte ha affermato che la circostanza che il legislatore abbia lasciato ai partiti il compito di indicare l’ordine di presentazione delle candidature non lede in alcun modo la libertà di voto del cittadino: a condizione che quest’ultimo sia pur sempre libero e garantito nella sua manifestata volontà, sia nella scelta del raggruppamento che concorre alle elezioni, sia nel votare questo o quel candidato incluso nella lista prescelta, attraverso il voto di preferenza». Semplice semplice.

Questione che – secondo i redattori della legge – sarebbe risolta con le liste «corte». Si dice cioè che essendo «corte», cioè composte da pochi nomi consentirebbero la «riconoscibilità» del candidato e quindi la identificazione tra elettore ed eletto, in una parola la scelta del proprio rappresentante.

SCEMENZA IPOCRITA buona solo per la casta. Per quale motivo una lista corta di nominati sarebbe diversa e preferibile rispetto a una lista lunga di nominati? I nomi e i cognomi ci sono nella lista lunga e nella lista corta; nel caso della lista lunga si sapeva benissimo che gli eleggibili erano solo i primi e che gli altri erano riempitivo.

Dunque l’effetto è esattamente identico. Il problema sta nel meccanismo di elezione: se i candidati vengono eletti nell’ordine di lista e questo ordine è stabilito dal segretario del partito avremo sempre un parlamento di nominati. E non si stabilirà alcun legame tra eletti e cosiddetto territorio. Il legame sarà – strettissimo e con effetto «padronale» – solo tra nominato e nominante.

Problema, questo, non risolto neanche con le primarie, in primis perché le primarie italiane non sono regolate per legge e, come tutti sanno, sono una finzione (eufemismo che sta per imbroglio), e poi perché se si devono fare le primarie per scegliere il candidato, tanto vale reintrodurre le preferenze.

MA ANCHE SU QUESTO punto la Corte è chiarissima: «È la circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione», e tale disciplina, incostituzionale, «non è comparabile con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con esse l’effettività della scelta e della libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali)».

Il che non può apparire come una «autorizzazione» a «liste corte» che garantirebbero «conoscibilità», ma piuttosto, (al fine della conoscibilità dei candidati inseriti in liste preconfezionate) un esplicito richiamo al sistema uninominale.

ANCORA PIÙ NETTAMENTE la Consulta dice che se proprio si vuole mantenere il sistema delle liste preparate dai partiti esso può ritenersi costituzionale solo «dovendosi ritenere l’ordine di lista operante solo in assenza di espressione della preferenza».

Tanto che, in conclusione, la Corte afferma che «deve, pertanto essere dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2 e 59 del DPR 361/57 nonché dell’art. 14 comma 1 del d.lvo n. 533 del 1993 nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza per i candidati al fine di determinarne l’elezione».

Più chiaro di così. Una buona legge elettorale non può consentire un premio di maggioranza abnorme e deve prevedere le preferenze.

Diversamente sarebbe dichiarata ancora una volta incostituzionale.

Rimane solo la domanda: ci si può fidare di chi fa le leggi senza curarsi di dare uno sguardo rispettoso alle sentenze della Corte Costituzionale?