In un’epoca di sorprese politiche continue, l’incoronazione di Boris Johnson non lo è stata affatto. Ieri il neo-leader dei conservatori e del Paese ha sbaragliato il rivale e attuale ministro degli Esteri, il «rimanente» Jeremy Hunt (uno che, a giudicare dai parametri della politica-spettacolo cui anche la politica britannica ha tardivamente finito per soccombere, aveva la stessa freschezza di un manichino esumato dagli scantinati della Upim) con quasi il doppio delle preferenze. Insomma un plebiscito.

IL MONDO GUARDA, prende appunti e poi li butta davanti a tanta masterclass di democrazia e inclusione: nel momento cruciale di massima crisi dal 1945, la più antica democrazia parlamentare del mondo ha eletto il proprio leader, che s’insedia oggi a Downing Street, per volontà dello 0,13% della popolazione, quei circa 170mila iscritti al partito conservatore aggrappati alla speranza che Johnson salvi il partito dal meritato declino.
«Unità» è stata la parola d’ordine di Johnson, e subito la conferma della sua vittoria produceva cinque fresche dimissioni – tra cui i ministri della Giustizia David Gauke e dell’Istruzione Anne Milton – ultimi calcinacci caduti dal governo dall’ormai ectoplasmica Theresa May, già incamminatasi da un mese verso l’oblio.
Se non altro, la fine già scritta in quest’ormai infinita commedia degli errori di un occidente spasmodico – dove l’ennesimo uomo bianco, ricco, “donnaiolo” e sbruffone accede al potere sgommando sull’autostrada del privilegio di classe – non toglie affatto la suspense del finale.

DOPO TANTO CIARLARE di no-deal con la sua postura inconfondibilmente in bilico fra il piazzista e il barone universitario, Johnson si trova a letto con gli stessi mostri notturni della figlia del pastore: un accordo non rinegoziabile, una maggioranza di soli due seggi nonostante l’appoggio del Dup, la Scozia con un piede fuori della porta, lo stramaledetto backstop nordirlandese e lo spettro di elezioni anticipate in cui farsi superare dei paraculi lib-dem – letteralmente resuscitati da Brexit e dalla prima Carneade che capitasse a tiro, tale Jo Swinson – o dal sempre loro Farage, finalmente al sicuro dall’incertezza pensionistica grazie al rinnovato salario da parlamentare europeo.

Citati in quest’ordine, naturalmente, per via della paranoia del Labour di Corbyn, filo-sionisticamente intento a pugnalarsi da solo (e qui delle due l’una: o è davvero una paranoia suicida in cui il partito sceglie di naufragare la possibile vittoria del proprio leader mostrando un odio di sé in perfetto stile luterano; oppure, più banalmente, puro cretinismo politico).

MA SOPRATTUTTO, «BORIS», (l’unico politico britannico riuscito a convertire la stampa nazionale e non all’universale idiozia mediatica di chiamare con il nome di battesimo i rappresentanti della categoria) si trova ora a dover mangiare una cofana della propria retorica da commediante.
Ora che dagli endecasillabi della campagna elettorale è immerso fino al collo nella prosa del potere, dovrà vedersela soprattutto con la destra del suo partito, che ne ha disperatamente voluta l’ascesa pur di sopravvivere. Ma soprattutto con la congrua fetta di popolazione incarognitasi su Brexit come se fosse una questione di vita o di morte, alla quale ha fatto infinite promesse da amante bugiardo, molte delle quali ha naturalmente già dimenticato.

E qualora non optasse per l’amnesia e volesse davvero mettere in pratica le parole in libertà che lo hanno finalmente portato sulla soglia ambita, dovrà imporre la cosiddetta «prorogation», la chiusura anticipata della legislatura in modo da impedire alla consistente truppa parlamentare di remainers di votare contro un’uscita senza accordo, che – lo ricordiamo per coloro che hanno una propria vita da vivere – l’Ue ha prorogato al 31 ottobre prossimo.

TUTTI FATTORI che potrebbero concorrere a fare, della sua, la premiership più breve della storia prima di gettarsi di nuovo con lena nella ruota del criceto elettorale. Parafrasando Eliot, non è con uno schianto che finisce il mondo (dei conservatori), ma con una pernacchia.