Roman Vlad se n’è andato con un rimpianto: che nessuno avesse pensato di preparare un’edizione critica della partitura del Sacre du printemps nell’anno del centenario. A Stravinskij Vlad aveva dedicato gran parte del suo lavoro di studioso e si era sempre più radicata in lui la convinzione, nel corso di lunghi anni di ricerche e di riflessioni, che il massimo capolavoro del Novecento musicale non avesse ancora trovato una forma definitiva a causa dei continui ripensamenti dell’autore. Avrebbe colmato ben volentieri lui stesso questa lacuna, se le forze per intraprendere un’impresa tanto impegnativa non l’avessero abbandonato negli ultimi anni. C’è da sperare che qualche studioso più giovane abbia voglia di prendere in mano questo progetto e di affondare il naso nell’abbondante messe di appunti raccolti da Vlad, che prima di morire ha lasciato la sua ricchissima biblioteca musicale alla Fondazione Cini di Venezia.

L’episodio del Sacre riassume in maniera emblematica il senso della figura di Roman Vlad nella cultura italiana. Fino all’ultima stilla di energia, lo spirito di questo musicista d’eccezione ha seguito un istinto pedagogico e un desiderio di comunicare, che si erano manifestati in forme diverse lungo tutto il corso della sua esistenza. Grazie alla conoscenza della nuova musica per pianoforte di autori come Schönberg, Alban Berg e Béla Bartók il giovane Vlad venne accettato ai corsi di perfezionamento di Santa Cecilia, nel 1938. Nella Roma isolata e provinciale degli anni Trenta, il brillante pianista di passaporto rumeno ma di cultura mitteleuropea entrò subito in sintonia con le poche voci aperte a una visione moderna e internazionale dell’arte, a cominciare dal suo maestro Alfredo Casella, verso il quale Vlad nutrirà sempre una profonda e incondizionata riconoscenza. Quando Bartók arrivò a Roma per tenere dei concerti, a ridosso della guerra, Vlad fu l’unico che andò a cercare il rappresentante per antonomasia del modernismo musicale, guardato con indifferenza o peggio con sospetto dall’ortodossia culturale del fascismo. Casella non ci mise molto a riconoscere nel cosmopolitismo culturale il talento migliore dell’allievo e invitò Vlad a tenere al Teatro delle Arti alcuni cicli di concerti, per introdurre l’ignaro pubblico romano al repertorio più moderno proveniente dalla lontana Europa. In questo modo Vlad incuriosì e avvicinò una fascia di giovani che rappresentavano la parte più aperta e dinamica della cultura italiana dell’epoca, come Cesare Brandi, Giulio Carlo Argan, Eugenio Montale.

Nell’Italia uscita dalla traumatica esperienza della guerra e del fascismo, Vlad intuì subito il ruolo essenziale dei mezzi di comunicazione nello sviluppo di una nuova coscienza culturale del Paese. La sua celebre monografia dedicata a Stravinskij, pubblicata da Einaudi nel 1958 e subito tradotta in molte lingue, nacque infatti all’inizio come un ciclo di trasmissioni radiofoniche. Da quel seme è germogliato un amore per il musicista russo che ha prodotto una cospicua massa di studi e di interventi, molti dei quali apparsi negli anni sulla «Nuova Rivista Musicale italiana». Nel 2005 Vlad ha rimaneggiato i suoi numerosi lavori sulla Sagra della primavera, riunendo in un volume intitolato Architettura di un capolavoro (ed. Bmg) quasi cinquant’anni di studi volti a penetrare i segreti di una partitura «senza discendenza», come amava definirla Pierre Boulez. L’architettura in questione, secondo Vlad, è il frutto di un pensiero razionale e allo stesso tempo del piacere dei sensi, una diade che si potrebbe estendere facilmente all’intera produzione di Stravinskij, il vero dominatore della musica del Novecento.

L’aspetto pedagogico della figura di Vlad però non riguarda soltanto la cosiddetta divulgazione musicale, ma in senso lato l’intero arco della sua attività di musicista. Gran parte della sua storia di organizzatore musicale, cominciata all’Accademia Filarmonica romana e culminata come direttore artistico delle principali istituzioni italiane (Maggio musicale fiorentino, Teatro dell’Opera di Roma e Teatro alla Scala), si è svolta nel segno di una ricerca di nuovi orizzonti. Memorabile per esempio è rimasta l’edizione del Maggio Musicale fiorentino del 1964 dedicata all’Espressionismo, che Vlad aveva organizzato in mezzo a una ridda di polemiche sulla presunta «invasione nordica» e sui «conati intellettualistici di uno sparuto pugno di fanatici», quando ancora un teatro italiano poteva allestire spettacoli come Dottor Faust di Ferruccio Busoni, Erwartung di Schönberg in prima rappresentazione in forma scenica e Il naso di Sostakovic con la regia di Eduardo De Filippo, invitando allo stesso tempo studiosi e artisti come Piscator, Dallapiccola, Milloss, Zevi, Rognoni, Mittner, Ernst Bloch e molti altri a un congresso internazionale sul tema del festival.

Il piacere di raccontare la musica del Novecento non ha mai abbandonato Vlad nel corso della sua carriera di organizzatore, specie in manifestazioni adatte all’apertura verso il moderno e contemporaneo come Settembre Musica di Torino, di cui ha retto le sorti artistiche per vent’anni insieme a Enzo Restagno.

Anche come interprete e compositore, Vlad ha vissuto la musica come un fenomeno investito di una sorta di potere sciamanico verso il pubblico. Per questo hanno avuto tanto successo le sue analisi alla televisione delle interpretazioni di un artista circondato da un’aura di sacralità come Arturo Benedetti Michelangeli. Vlad sapeva spiegare con un linguaggio chiaro e con l’aiuto di esempi musicali la necessità della tecnica perfetta di Benedetti Michelangeli per esprimere il pensiero musicale di autori come Debussy o Ravel, ma sempre rispettando il carattere ascetico e lontano delle storiche registrazioni del pianista. La sua stessa musica, infine, risente l’influsso di questa naturale propensione a esprimere in ogni forma l’incontenibile amore per il mondo dei suoni. Non a caso Vlad ha scritto la maggior parte della sua produzione per il cinema e il teatro, firmando la colonna sonora di oltre settanta film e di un’incalcolabile quantità di documentari di vario genere. Le immagini hanno bisogno della musica per esprimere il loro intimo valore, secondo Vlad, che intendeva la scrittura per il cinema come un servizio reso a un artista privo del linguaggio tecnico necessario. Le colonne sonore più belle, sosteneva, erano quelle di Charlie Chaplin, che sapeva esprimere con la stessa maestria anche delle idee musicali. Vlad dal canto suo cercava di comporre la musica che registi come René Clément, Luciano Emmer o Renato Castellani avrebbero scritto, se fossero stati in grado di farlo. Questo suo modo di fare un passo indietro, di mettersi con grande civiltà al servizio degli altri, di saper contrastare con l’antidoto dell’intelligenza i velenosi effetti del narcisismo rappresenta l’eredità più grande di Roman Vlad, che mai come in questi tempi di desolante deriva culturale sembra davvero provenire da quella terra di nessuno, non più Impero austro-ungarico e non ancora regno di Romania, dove il musicista era nato, nel lontano 1919.