Il metodo fenomenologico e il suo ideatore, Husserl, sono spettri del dibattito filosofico contemporaneo, persino nominati con un certo pudore, anche da parte di chi è pienamente persuaso della loro fertilità. La fenomenologia si aggira, appunto, come un morto vivente, riesumata per onestà storica, ma perlopiù ritenuta incapace di fioriture concettuali o di adattamenti alle urgenze del mondo in cui viviamo. «Se dovessi riassumere il mio atteggiamento fondamentale nei confronti della fenomenologia, lo farei in questo modo: non ne sento il bisogno»: così scriveva Norberto Bobbio nel 1961 in una lettera indirizzata a Enzo Paci, manifestando il suo disagio nei confronti delle filosofie che «salgono sul piedistallo».

A tenere in pugno le chiavi della sensibilità della nostra epoca sono tendenze che, effettivamente, ben poco hanno in comune con la fenomenologia: da una parte, il radicato sospetto per qualsiasi forma di sistema, ovvero di pensiero organizzato gerarchicamente, di filosofia speculativa; dall’altra, una misteriosa tendenza a evadere dal mondo umano e a tacciare di antropocentrismo indebito qualsiasi filosofia che muova da una analisi dell’esperienza. Gli animali non umani, le piante, gli oggetti ci fornirebbero punti di osservazione più seducenti. Il metodo fenomenologico viene dunque giudicato troppo astratto, incapace di poggiare i piedi per terra, insensibile alle istanze materialistiche e alle esigenze della prassi e, al contempo, altezzosamente arroccato nel mondo della vita umana.

Il recente libro di Roberta de Monticelli, Il dono dei vincoli Per leggere Husserl (Garzanti, pp. 259, euro 15,00) è un invito appassionato a non prendere per vero ciò che generalmente si imputa a Husserl e alle scuole fenomenologiche: astrazione e ritiro nell’osservatorio privilegiato dell’esperienza umana. Il monito husserliano a prendere le mosse dall’esperienza non ha certo il sapore di un ripiego intimistico o psicologistico, né quello di un relativismo storicistico, bensì poggia sulla convinzione che un vero incontro con l’alterità, con il non-costruito, con le strutture di verità, possa darsi solo dall’interno dell’esperienza. Uno sguardo che ambisse a balzare fuori dall’esperienza non incontrerebbe il mondo così com’è, celebrerebbe, al contrario, il trionfo dell’immaginario.

Lo straniero, vale a dire ciò che mostra autonomia e indipendenza e non si lascia addomesticare ponendo dei vincoli alla nostra smania di assimilazione, lo si incontra solo, e non è un paradosso, attraverso uno sguardo di prossimità. Se c’è infatti un luogo in cui il metodo fenomenologico si sente a casa è quello dell’ «intimità clandestina» o dell’ «esclusione intestina», per riprendere espressioni di Derrida, a torto considerato da Roberta De Monticelli fra i maggiori esponenti del relativismo postmoderno.

I capitoli centrali del saggio sono dedicati a sgombrare il campo dagli equivoci che si annidano intorno alla questione dell’ «idealismo» husserliano. La fenomenologia, ci ricorda De Monticelli, non è un idealismo che assimila il mondo alla coscienza che ne abbiamo; né, sul versante opposto, condivide qualcosa col platonismo scolastico che colloca le idee in un orizzonte metafisico. Sono queste le pagine più intense del libro, quelle che si avventurano nell’eidetica o teoria delle essenze, per caratterizzare con precisione il punto in cui Husserl colloca i dati non empirici o apriori materiali in netta rottura con l’empirismo, da una parte, e il kantismo dall’altra.

Pagine intense non solo per l’esattezza teorica, ma anche per lo stile vibrante della scrittura. Meno convincenti, invece, i paragrafi che, nel tentativo di saldare logica ed etica, attribuiscono a Husserl un’anima sostanzialmente orientata dalla ragione pratica, insistendo sui concetti di responsabilità, serietà, paideia, termini ai quali viene data una sfumatura prescrittiva che induce l’autrice a considerare quasi tutta la filosofia post-fenomenologica affetta da scetticismo morale.