In guerra non esistono coincidenze. Non è una coincidenza che il primo viaggio all’estero del siriano Assad dal 2011 sia in Russia e non è una coincidenza che giunga a poche ore dalla firma di un memorandum di intesa tra Washington e Mosca.

I media hanno riportato dell’incontro a sorpresa tra Assad e Putin, avvenuto martedì, ieri: il presidente siriano è stato accolto al Cremlino dove ha discusso dell’attuale strategia militare anti-islamista. Non solo: i due hanno riaffermato la necessità di accompagnare al coordinamento sul campo di battaglia anche la definizione di un piano politico e diplomatico, la exit strategy dalla crisi interna. Assad, cacciato dalla porta, è rientrato dalla finestra: l’intervento russo ha imposto la sua presenza al futuro tavolo del negoziato. E questa visita è un monito ai suoi nemici: il presidente non può essere ignorato. Di questo Assad non può che ringraziare l’alleato: «Voglio esprimere la nostra immensa gratitudine alla leadership e al popolo russi per l’aiuto che stanno fornendo alla Siria – ha detto durante l’incontro di martedì – [senza il quale] la situazione sarebbe diventata ancora più tragica».

Un punto a favore di Assad, ma anche di Putin. L’incontro ricorda ai tanti attori attivi sul campo siriano la centralità del ruolo di Mosca nella risoluzione del conflitto. Il presidente russo ha infatti ribadito l’intenzione di gestire anche la transizione politica, secondo passo verso la stabilizzazione dei propri interessi regionali, vera preda del novello zar Putin. Che sa di avere dalla sua la debolezza della potenza avversaria, il cui attuale obiettivo è uscire con le ossa meno acciaccate possibile dall’ingestibile caos mediorientale che ha in parte provocato. Queste le premesse del memorandum d’intesa firmato martedì da Washington e Russia, un accordo in apparenza volto ad evitare scontri nei cieli siriani tra jet avversari.

L’intesa – i cui dettagli non sono stati resi pubblici su richiesta russa – introduce procedure di sicurezza per evitare che le due aviazioni militari possano intralciarsi. Tra le misure previste c’è la creazione di una linea di comunicazione diretta da usare nel caso quelle in loco non debbano funzionare. Una linea rossa del ventunesimo secolo, quella tra Casa Bianca e Cremlino, memoria della guerra fredda. Come allora, le due super potenze non intendono giungere ad uno scontro. A differenza di allora, però, stavolta l’obiettivo è simile: Russia e Stati uniti combattono lo stesso nemico, l’Isis.

La coordinazione è necessaria e, seppur indiretta, esiste già. E stabilire regole per non darsi troppo fastidio significa definire un coordinamento che non può trasformarsi in guerra, fredda o guerreggiata che sia. Ovviamente il Pentagono nega: il portavoce Cook ha tenuto a sottolineare che l’accordo non prevede la condivisione di informazioni e «non costituisce sostegno Usa alle politiche russe in Siria».

La guerra civile si trasforma in qualcos’altro: non è più una battaglia tra opposizioni e governo, quasi tagliati fuori dalle strategie internazionali, ma una guerra per definire sfere di influenza. Per questo, ogni attore regionale e globale che vi prende parte sa di dover radicare la propria autorità ora, prima di perdere il posto al negoziato. Lo sanno gli Stati uniti che abbandonano il programma dei ribelli in Turchia e lo sa la stessa Ankara: martedì per la prima volta il turco Erdogan ha dato l’ok alla presidenza ad interim di Assad per sei mesi, prima delle elezioni (proposta mossa da governi europei a cui piace decidere per il popolo siriano). Di strategie si discuterà domani, a Vienna: il ministro degli Esteri russo Lavrov e il segretario di Stato Usa Kerry incontreranno turchi e sauditi per discutere della crisi siriana e, probabilmente, cercare di conciliare i diversi interessi.

Sanno di dover tirare le fila anche i kurdi siriani che approfittano della guerra per stabilizzare il progetto di confederalismo democratico a Rojava. Dopo aver combattuto con successo l’Isis, ora si allargano: ieri il partito kurdo Pyd ha annunciato di aver inglobato nel cantone di Kobane la città liberata di Tal Abyad.

Iraq, pressioni sciite sul premier

L’autorità russa pesa anche sul vicino Iraq. Le ultime settimane hanno fatto da sfondo alla definizione di un legame sempre più stretto tra Baghdad e Mosca: prima il centro di coordinamento creato dai russi nella capitale irachena, poi la prospettiva di raid aerei nel paese. A muoversi sono proprio le milizie sciite, le stesse che in Siria combattono sul campo coperte dai raid russi: il partito di governo (sciita) e gruppi armati sciiti hanno fatto appello al premier al-Abadi perché chieda ai russi di bombardare lo Stato Islamico.

Appoggiarsi a Mosca significherebbe indebolire in maniera consistente il ruolo Usa. Da cui il dilemma di al-Abadi: lasciare la vecchia strada per imboccarne una nuova? Il premier non intende rompere l’alleanza con Washington, che in 12 anni ha garantito al paese 20 miliardi di dollari ma che ne uscirebbe incrinata se Mosca intervenisse, chiaramente al fianco della compagine sciita.