La crisi profonda e inesorabile della misura detentiva, rispetto alla quale si richiede un superamento netto e inequivocabile, tanto nei presupposti teorici quanto nelle modalità di esecuzione.

È quanto certificano con radicale convinzione due magistrati (Silvia Cecchi e Giovanna Di Rosa), un professore di filosofia morale e bioetica (Paolo Bonetti) e uno psicologo e psicoterapeuta sistemico-familiare (Mario Della Dora), nel denso e articolato volumetto dedicato all’argomento: Sulla pena. Al di là del carcere (Liberilibri, pp. 187, euro 16, introduzione di Giovanni Fiandaca).

Ne parliamo con Silvia Cecchi, magistrato e sostituto procuratore presso la Procura di Pesaro, autrice del saggio più ampio.

La pena carceraria si afferma come sanzione regina nel XIX secolo. Su quali presupposti e fondamenti?

Pur essendo sempre esistito il carcere come forma custodiale-cautelare (si pensi alla cella in cui Socrate conversa dopo la condanna a morte già proclamata, nel Fedone di Platone), in attesa e per il tempo del processo il carcere come sanzione penale principale si afferma con il significato di una risposta sanzionatoria meno drastica della pena capitale.

Già nel Settecento il carcere da luogo di ricovero indifferenziato, promiscuo, accòlita di tutti i reietti sociali (folli, vagabondi, mendicanti, prostitute, donne violentate o ragazze-madri, streghe, poveri, debitori, criminali) si delinea come realtà fisica e ideale nel senso moderno del termine, e cioè come struttura di pena, anche architettonicamente specializzata. Vi è però un tratto di continuità tra pena di morte (accompagnata o non da tortura) e carcere: la comune afflittività che resta componente essenziale della pena carceraria fino ad oggi. A ben vedere anche la pena carceraria resta oggi fondamentalmente una pena corporale.

Il carcere è il momento culminante di un percorso che origina nella storia individuale e sociale. Qual è il peso delle disuguaglianze sociali, per esempio, nel meccanismo che conduce alla pena detentiva?

Oggi la sanzione carceraria costituisce l’esito di un processo presieduto in ogni sua fase dal principio di eguaglianza, che si traduce in una serie di istituti garantistici di sicura efficacia ed effettività: si tratta, come tutti sappiamo, di una lunga conquista di civiltà giuridica, irreversibile. Ciò non toglie che il peso delle profonde diseguaglianze sociali continui a ispirare, nella realtà extraprocessuale, politiche di repressione criminale, e che possa influenzare anche la realtà della pena come istituzione sociale, più che come istituzione giuridica. Sono però convinta che la sede giudiziaria rappresenti oggi uno dei presidi maggiori e uno dei rimedi più efficaci alle diseguaglianze sociali.

Altra cosa sono gli effetti indotti dalle diverse opportunità di difesa tecnica, dalla propensione individuale alla commissione di reati determinati da indigenza, diseguaglianza o da marginalità sociale. Non si tratta di giustizia discriminatoria, ma di riflessi di una realtà sociale diseguale ed essa stessa discriminatoria. Anche per la magistratura rompere certe zolle dure è impresa molto ardua, e sempre sospetta di connotazione ideologica. Se poi vi sono componenti dell’apparato giudiziario influenzabili a logiche illecite esterne, si tratta di fenomeni (direi minoritari) di patologia giudiziaria, e li ascriverei al meccanismo processuale come tale.

Lei parla di un declino ormai segnato e inesorabile della sanzione carceraria? Eppure le carceri scoppiano. Cosa intende dire?

Direi che vi è una divaricazione profonda tra un sentire sociale ancora convintamente legato all’idea che la pena del carcere sia necessaria e vada anzi resa più severa e più effettiva, e un orientamento, più diffuso tra giuristi e cittadini sensibili al tema etico-giuridico della sanzione, che tende a delegittimare la pena carceraria così come oggi prevista per legge (pena unica per tutti i reati e coinvolgente la totalità della persona del reo). Tengo però a evidenziare che l’orientamento critico sulla pena carceraria sta facendo breccia sul piano legislativo e che c’è aria di riforma sul tema, con un certo allineamento anche ad altre legislazioni europee ed extra-europee, senza alcun rischio per la sicurezza sociale e senza alcun aumento di criminalità, che è quanto il cittadino comune teme di più.

Lei sostiene che il diritto penale si concentra soltanto sul reo, mentre la responsabilità penale presuppone una relazione stretta con la vittima. In che senso?

Un diritto penale-processuale «imputatocentrico» ha senso naturalmente di fronte a una pena afflittiva ed estrema e non potrebbe essere altrimenti. Una «rotazione» del sistema sanzionatorio verso aspetti più riparatori, impegnativi, responsabilizzanti e rieducativi lascerebbe riemergere invece la componente oggi meno visibile della responsabilità penale, quella che io chiamo la responsabilità «da relazione», e con essa la persona della vittima, la sua realtà concreta. In questa prospettiva, oltre a un maggior ruolo processuale, le esigenze della vittima dovranno essere prese seriamente in carico dallo Stato. Ciò non significa «automaticamente» che la risposta sanzionatoria riservata al reo e le esigenze delle vittime debbano avere necessariamente aspetti in comune o punti di incontro.

Se la sanzione carceraria è inutile e persino dannosa, quali altri sistemi di punizione delle infrazioni penali possono effettivamente favorire la «soddisfazione» della vittima e il recupero del colpevole alla vita sociale?

La sanzione carceraria è normalmente tanto afflittiva quanto vuota. Inoltre nel nostro sistema è anche spesso ineffettiva. Non mi riferisco naturalmente ai reati implicanti seria pericolosità sociale, ma alla stragrande maggioranza dei reati in cui non possiamo operare alcuna equivalenza tra persona del reo ed atto compiuto. La responsabilità per l’atto illecito compiuto non autorizza e non legittima alcuna repressione totalizzante e plenaria sull’intera persona del reo, non giustifica alcuno scambio «metonimico» tra atto e persona. Oggi la pena carceraria è prevista anche per reati colposi e cioè, per definizione, commessi contro l’intenzione. La pena carceraria (che diviene pena afflittiva anche per parenti, coniugi o figli o genitori che siano) disvela così un’arcaica radice religiosa e moralistica incompatibile con la civiltà giuridica attuale.

Necessarie saranno allora sanzioni penali che io ritengo assai più efficaci e deterrenti, e soprattutto effettive e inderogabili: sanzioni a natura patrimoniale, interdittive, impegnative e cioè a contenuto prioritariamente relazionale, in omologia e in armonia con una costruzione della responsabilità penale in senso relazionale.

L’essenziale è che la sanzione penale «trascenda» il crimine commesso (nel senso in cui De Martino parla di trascendimento e ritualizzazione come modalità di superamento del «lutto» , e ciò vale anche per il crimine), che si ponga cioè su un piano qualitativamente, eticamente e finalisticamente diverso, e che non attinga alle stesse pulsioni cui attinge il delitto, come ha acutamente affermato il giurista Franco Cordero.