Innanzitutto Pkk. E poi: Pkk. E per concludere: Pkk. Ma cominciamo dal Pkk: è per i riferimenti a questo partito, fondato nel 1978 da Öcalan e suo fratello e considerato da Usa e Ue un’organizzazione «terroristica» (come ha ribadito ieri Trump a Mattarella) che Facebook ha bloccato decine di pagine (anche di testate registrate) che hanno pubblicato informazioni o solidarietà con i curdi. Altri rischiano la chiusura per «ripetute violazioni degli standard della community».

Chiariamo: per essere bloccati non è necessario inneggiare al Pkk; basta una foto a corredo di un articolo postato. D’altronde tra Facebook e la Turchia c’è un rapporto particolare, tanto che Ankara ha meritato alcuni riferimenti specifici ai propri nemici nella policy del social. Questa forma di censura (fatta da persone, sottopagate e sfruttate, impiegate nell’attività di «ripulitura» del social) alcune settimane fa ha colpito anche pagine di fascisteria assortita e quelle pro Cina riguardo a Hong Kong. In pratica, Facebook ci dice ogni giorno che sulla sua piattaforma fa quello che vuole.

Il problema è che Facebook si comporta come uno Stato e come tale decide di stringere accordi o meno con altri Stati e soprattutto decide cosa sia informazione e cosa no.

Le scelte sono di Facebook, ma la benzina siamo noi, con i nostri dati. Siamo disposti a rinunciarci? Forse no. Di questi tempi denunciare la complicità del social con regimi come quello di Erdogan potrebbe essere il minimo richiesto. Facciamolo allora: Pkk.