Con la pandemia e la crisi economica e petrolifera globale, anche le guerre, che non si sono mai fermate, possono prendere nuove direzioni. Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, l’autocrate siriano Bashar Assad e il generale libico Khalifa Haftar sono sotto pressione dei loro sponsor, gli Stati uniti e la Russia. Non sono ancora pronti a sacrificarli ma vogliono un cambio di passo, in linea con gli interessi di Washington e Mosca.

Con i sauditi, ci racconta la Reuters, Trump ha sfoderato la più spaventosa delle minacce: se Riad non avesse tagliato la produzione petrolifera risollevando le quotazioni del barile – precipitate sotto zero mandando fallite le compagnie americane dello shale oil – gli Usa avrebbero ritirato la loro protezione militare che dura dal 1945, quando Roosevelt e re Ibn Saud forgiarono a bordo del Quincey sul Lago Amaro il loro famoso accordo.

Per essere ancora più convincente, Washington ha fatto filtrare questa settimana sul Wall Street Journal la notizia del ritiro dei sistemi anti-missile Patriot e di due squadroni di aviazione schierati nel regno. Non poco in un anno cominciato con l’assassinio Usa del generale iraniano Qassem Soleimani e se pensiamo che nel settembre scorso, dopo gli attacchi agli impianti dell’Aramco rivendicati dagli Houthi filo-iraniani, gli Usa avevano inviato 3mila soldati a sostegno della monarchia.

Una decisione che Trump ha appena ribadito in una telefonata al re saudita Salman impantanato da cinque anni in Yemen dalle fallimentari iniziative belliche del suo principe ereditario: gli Houthi non hanno fermato la loro offensiva, mentre ad Aden comandano i separatisti filo-Emirati che hanno messo spalle al muro il presidente-fantoccio Mansour Hadi rifugiato a Riad.

L’Arabia saudita sta fallendo su due fronti: nel Golfo, nonostante l’Iran sia in crisi nera per il coronavirus e l’economia, e nel cortile di casa yemenita. Non basta al principe eliminare gli oppositori: dopo avere fatto a pezzi il giornalista Jamaal Kashoggi, ha appena lasciato morire in stato di detenzione il poeta e attivista di diritti umani Abdullah al Hamid.

Anche Mosca sta rivedendo i rapporti con Assad. Putin in Siria vuole portare a casa una vittoria diplomatica ed economica. Per questo sta mettendo pressione a Damasco perché accetti una soluzione politica sia con la Turchia che con l’opposizione. Lo stesso motivo per cui vuole accelerare il ridimensionamento delle forze iraniane sul campo, tanto è vero che Mosca non ha detto una parola sui raid israeliani contro i Pasdaran per «espellere l’Iran dalla Siria».

Obiettivo non facile perché il regime alauita è legato a Teheran dalla rivoluzione khomeinista del 1979 e fu l’unico tra gli arabi a schierarsi con l’Iran quando nell’80 fu attaccato da Saddam Hussein.

In questo quadro va letta la resa dei conti tra Bashar e il cugino materno Rami Makhlouf che si era impadronito non solo della maggiore compagnia telefonica ma del 50% dell’economia siriana. Così Assad si è ispirato alla «purga del Ritz Carlton», quella con cui il principe Mohammed bin Salman ha messo le mani sui patrimoni dei dignitari sauditi, per congelare i capitali di Rami. Ne ha bisogno: il Pil siriano è crollato da 60 a 17 miliardi di dollari.

Mosca spinge perché Assad paghi i debiti di guerra e le forniture di grano russo. Ma non basta. A Mosca sono comparsi articoli che criticano «i capricci della famiglia Assad» e mettono in discussione la popolarità di Bashar. Uno di questi è stato pubblicato da Ria Fan, contrastante sito di notizie di proprietà di Yevgeny Prigozhin, amico di Putin e patron della società di mercenari Wagner attiva sia in Siria che in Libia.

La realtà è che nonostante i successi di Assad ottenuti con il sostegno dell’aviazione russa la campagna nel Nord sta mostrando i suoi limiti e Mosca, dopo le intese a Idlib sui pattugliamenti congiunti con i turchi, cerca compromessi significativi per il futuro politico della Siria che comprendono il rientro di Damasco nella Lega Araba e il ritorno delle monarchie del Golfo: i loro soldi sono indispensabili per la ricostruzione. Così come Putin pensa a un appoggio europeo per togliere le sanzioni a Mosca e alla Siria.

L’idea di un accordo con la Turchia potrebbe essere perseguito anche in Libia dove Mosca è ai ferri corti con un generale Haftar che annaspa. Al Cremlino accettano di buon grado l’intesa tra la Turchia e l’Italia sulla Tripolitania per difendere gli interessi energetici dell’Eni. E lo stesso Lavrov ha duramente ripreso Haftar dopo la sua autoproclamazione come capo supremo della Libia. La Russia in Libia cerca un altro cavallo ma non sembra l’abbia ancora trovato.

Il coronavirus, che pure miete vittime ovunque, non ha fermato le guerre, continua il braccio di ferro Usa nei confronti dell’Iran e quello di Putin in Siria e Libia: ma la crisi economica è una pandemia che per ora stende anche le superpotenze. Tranne una, come sappiamo.