Ryan Gattis non ha ancora quarant’anni e proviene da una famiglia di militari, originario dell’Illinois è cresciuto in Colorado prima di stabilirsi a Los Angeles dove ha insegnato scrittura creativa alla Chapman University. Il corpo coperto di tatuaggi giapponesi, fa parte da alcuni anni del collettivo di street art UGLARworks.
Il suo primo romanzo, Giorni di fuoco (Guanda, pp. 419, euro 22) racconta i sei giorni del 1992 che fecero seguito all’assoluzione degli agenti di polizia che avevano pestato e arrestato l’afroamericano Rodney King. Quelli in cui ebbe luogo una delle più drammatiche rivolte urbane della storia degli Stati Uniti, conclusasi con un bilancio di oltre sessanta morti, duemila feriti, poco meno di undicimila arresti e altrettanti incendi. Con uno stile sospeso tra reportage letterario e noir, qualcosa che fa pensare a un incontro tra Truman Capote e James Ellroy, Gattis osserva quella vicenda dal punto di vista della strada, attraverso gli occhi e i gesti dei membri delle gang che si impadronirono del centro della metropoli californiana per una settimana, prima che le «regole del gioco» fossero ristabilite dai carri armati dell’Us army.

A venticinque anni dai fatti, un romanzo sulla rivolta di Los Angeles e sul ruolo che vi giocarono le gang… Perché questa scelta?
Quei sei giorni del 1992 hanno trasformato la città, in particolare la zona del centro e il South Central in modo ancora più preciso, in una sorta di selvaggio west. Lo stato di diritto e la giustizia sono scomparsi, sono stati per così dire sospesi per quasi una settimana, intere aree metropolitane sono rimaste senza servizi di emergenza e prive di ogni controllo da parte delle forze dell’ordine, e così le persone si sono prese ciò che ritenevano spettasse loro. In quel momento Los Angeles è divenuta in una zona di guerra, con i marines e la guardia nazionale che pattugliavano le strade: la seconda città degli Stati Uniti era assediata dalla sua stessa popolazione! Credo sia questo il vero motivo per cui ho cominciato a scrivere Giorni di fuoco: perché questa sospensione dell’ordine e della legalità, così come li conosciamo, ha esercitato un grande fascino su di me. Siamo abituati a pensare che nel nostro mondo alcune regole – potremmo dire lo status quo – siano quasi una condizione di natura, e invece in quei giorni alla dimensione che consideriamo normale se ne è sostituita un’altra, il vuoto ha preso il posto dei codici abituali e una diversa umanità ha preso il controllo delle strade per regolare vecchie ruggini, saldare conti rimasti in sospeso e ridefinire i confini stessi dello spazio urbano.

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Ryan Gattis

Dalle pagine del suo libro emerge molto chiaramente come il «riot» del 1992 non fu originato solo dal pestaggio di Rodney King. Quali furono allora le altre cause?
Ve ne furono molte e rappresentano l’altro motivo per cui ho sentito che dovevo raccontare questa storia. Ciò che aveva subito quell’uomo non fu che l’elemento scatenante. Nei due anni che ho trascorso con gli abitanti di quei quartieri per documentarmi, mi sono reso conto che ciascuno di loro aveva il «suo» Rodney King: tutti avevano interiorizzato un sentimento di ingiustizia. In quegli stessi giorni del 1992, l’omicidio di Latasha Harlins, una ragazza di 15 anni uccisa da un commerciante coreano dopo un litigio per il pagamento di una bibita, ebbe un effetto ancor più scioccante sulla comunità afroamericana della stessa vicenda di King. L’uomo se la cavò, infatti, con una multa e qualche ora di lavori socialmente utili. Tutto questo avveniva in una zona dove la povertà e l’esclusione erano di casa, con genitori disoccupati e ragazzi che frequentavano scuole di serie b, quando non avevano smesso del tutto di andarci. E più tardi, nel racconto dei media, il fumo degli incendi ha coperto ogni cosa e nessuno si è più interessato alle cause reali di quanto stava accadendo.

Cosa è cambiato dopo la rivolta, Los Angeles conserva ancora oggi memoria di quei fatti?
L’impronta di ciò che avvenne allora è ancora percepibile. Gli incendi che scoppiarono nel 1992 hanno cambiato per sempre il volto della città. In molti casi, la ricostruzione ha trasformato del tutto i quartieri, talvolta anche migliorandoli. Quanto alle gang, si sono adattate alla nuova situazione. Certo non sono scomparse, ma è sempre più difficile cogliere i segni esteriori dell’appartenenza a una di esse: niente colori precisi, sempre meno tatuaggi visibili. Molti dei problemi sociali o le difficoltà nel rapporto con le forze dell’ordine, sono però tutti ancora lì. In ogni caso, chi ha vissuto quei giorni ne conserva un ricordo indelebile, sia per ciò che ha subito che per quello, ma nessuno lo ammette chiaramente, può aver commesso in quel momento. Non credo che la gente di Los Angeles potrà mai dimenticare.

Questo romanzo è frutto di un lungo lavoro di scavo e dei moltissimi incontri che lei ha avuto anche con membri delle gang. Come è riuscito a vincere la loro prevedibile diffidenza?
Sul piano generale fin da principio abbiamo stabilito che nel corso delle nostre conversazioni non si sarebbe fatto riferimento ad alcun episodio criminale preciso, così nessuno rischiava niente. Poi ho capito che per guadagnarmi la loro fiducia, prima di ascoltare avrei dovuto parlare di me. Mi sono reso conto che condividere una sconfitta può avvicinare le persone. Così ho raccontato di quando, da adolescente, ho ricevuto un colpo durissimo in faccia che mi ha quasi staccato il naso. A causa di questo, mi sono dovuto sottoporre a diversi interventi chirurgici e sono stato ricoverato per tanto tempo accanto a persone che soffrivano ancor più di me. Allora hanno capito che anch’io ero un sopravvissuto e che volevo scrivere soltanto ciò che era davvero successo nel 1992; senza alcuna enfasi né giudizio.

La morte di tanti afroamericani per mano della polizia e l’ascesa di un politico razzista come Trump ci dicono che l’America si sta preparando di nuovo a una rivolta come quella del 1992?
Non credo che i motivi che sono stati fin qui alla base delle rivolte urbane vadano confusi con le provocazioni che arrivano da questo o quel politico di destra. Il problema non è tanto Trump, quanto le questioni irrisolte che sono profondamente radicate nella nostra società e che non sono state affrontate, neppure dall’amministrazione Obama. Prima di tutto, il fatto che ci sono comunità – a cominciare proprio dagli afroamericani – che non hanno abbastanza lavoro o che sono penalizzate da un sistema scolastico, sanitario e di assistenza sociale del tutto inadeguati e insufficienti. È il permanere di queste grandi disparità nel paese che rende possibili nuove rivolte, come si è visto anche nell’ultimo anno.
Eppure è chiaro: la scintilla è sempre rappresentata da un atto palese di ingiustizia come quelli che compiono quotidianamente gli agenti sui ragazzi dalla pelle nera: questo perché il sistema giudiziario, proprio come accadde nel caso di Rodney King, non è ancora oggi in grado di rendere giustizia alle vittime di tali abusi.