Che differenza c’è tra una fata e un cineasta? Una ha la bacchetta, l’altro la cinepresa, la fata pronuncia sortilegi, l’autore scrive sceneggiature. Entrambi aiutano giovani biondoni a conquistare belle addormentate e sanno come le cose andranno a finire. Ma allora, perché agitarsi? Lottare contro il destino corrisponde a cedere all’illusione che basti essere al corrente del fato per scansarlo. Ecco che il re della favola pensa di poter evitare la catastrofe sbarazzando il proprio Paese di tutti i filatoi. Mentre è proprio attraverso questa contromisura che il destino si compie. Al fato nessuno può sottrarsi: né le fate buone, né quelle cattive. I cineasti (quelli buoni) lo sanno.
C’è, in Belle Dormant – in sala grazie all’indipendente Zomia – una chiara diffidenza nei riguardi del potere performativo della parola e di quello che in genere lo veicola: la voce. Non che Belle Dormant sia un film privo di parole. Una delle scene più belle è quella in cui, passeggiando in elicottero, l’angelo (Matthieu Amalric) racconta al principe Egon la leggenda del regno incantato di Kentz. Adolfo Arrieta (o Adolpho Arrietta ) non nega la forza della parola. Ma ne diffida come di una fata cattiva, proprio in virtù del suo potere di seduzione. Per Arrieta il mestiere del cineasta consiste precisamente in una lotta contro l’incanto della parola. Fin dalla direzione degli attori, la quale sceglie di ignorare la psicologia per concentrarsi sulla partizione ritmica dei silenzi tra una parola e l’altra.

 

 

E poiché contenuto e forma fanno tutt’uno, questo metodo fa anche parte integrante della storia. La fata buona, Gwendoline (Agathe Bonitzer eccellente con il sua sempiterna smorfia parigina) non fa che esprimere il credo del regista nel momento in cui avverte il principe che il pericolo si manifesterà sottoforma di canto. La fata è il regista e per questo, anche lei, non dirige Egon. Piuttosto gli fa apparire magicamente – in una sfera di cristallo – un’immagine, nella quale il principe potrà esistere, brillare, incantare. Ora, questo contro-incanto non è l’ineffabile ma il ritmo, la musica, il ballo. Lo si capisce fin dalla prima scena, dove scopriamo Egon (Niels Schneider) dietro la batteria mentre suona un pezzo rock (strumentale), con una sigaretta alle labbra come per chiudergli il becco. Perché una bocca così, non deve dire nulla, solo baciare.

 

 

L’incanto della parola è potente ma è anche facile, immediato e in fondo effimero: perché la parola definisce, immobilizza, tiene fermo. Contro di lei, Arrieta e la sua fata creano un eroe la cui bravura consiste, né più né meno, a mettere in movimento ciò che si è immobilizzato. Le due scene di ballo sono un capolavoro di perversione. Nella prima, Egon incontra Guendolina, ma è un twist: l’amore non può sbocciare tra di loro; colpo di scena annunciato, Egon dovra ballare con la Bella addormentata.

 

 

Questa volta sarà uno swing, come si addice ad una prima notte di nozze (to swing, alla lettera è muovere in avanti e indietro). Al di là della metafora sessuale, muovere e mettere in moto corrisponde per il regista a mettere in scena. Ecco perché ha sempre sofferto all’idea di finire i suoi film, fino a che il digitale non gli ha dato la possibilità di rimontarli all’infinito. E perché il suo cinema non è rivolto verso il passato, come questa storia di fate e di principi azzurri potrebbe suggerire.
Come l’incanto del Brigadoon di Vincente Minelli, a cui questo film si ispira, il suo cinema non è nostalgico. Certo, è in parte indifferente al presente, che non esita a irridere. Nel personaggio del padre del principe, il re ciarliero di Letonia (un ottimo Serge Bozon) Arrieta denuncia la mediocrità dei nostri tempi. D’altra parte, l’esperienza immaginaria del regno di Kentz, che si sveglia da un sogno di cento anni, suggerisce una riflessione sul potere incantatore della tecnologia. È infatti nello spazio di un istante che gli addormentati si abituano ai prodigi degli smartphone.

 

 

I kentziani siamo noi: ignoriamo come funzionano i nostri dispositivi; funzionano, come per magia, e questo ci basta. Questa riflessione è presente, ma se sia dolce o amara non è chiaro; si tratta di una critica negativa solo agli occhi di coloro i quali considerano che la magia, l’illusione e la credenza siano cose cattive. È fuor di dubbio che questo non sia il caso di Arrieta.