Alla fine, l’Agenzia delle entrate italiana ha raggiunto il suo obiettivo: costringere una grande multinazionale come la Apple a riconoscere che ha eluso il fisco per anni, imponendo un accordo transattivo che porterà nelle casse dell’erario 318 milioni di euro, meno della metà (880 milioni) dell’ires elusa dal 2007 secondo gli ispettori del fisco. Al di là dell’accordo, che può essere considerato insoddisfacente dal punto di vista economico per l’erario made in Italy, il dato rilevante è che il braccio di ferro tra l’agenzia delle entrate e le multinazionali vede vincente il fisco. È la prima volta, infatti, che l’elusione fiscale sistematicamente organizzate da molte imprese viene sanzionata. A dare notizia dell’accordo è stato il quotidiano «La Repubblica», che nell’edizione di ieri ha annunciato la firma dell’accordo, senza che la notizia sia stata smentita.

Una buona notizia, dunque, che apre la strada a moltissimi procedimenti dello stesso tipo e che vedono coinvolte in Europa società come Facebook, Amazon, Google, McDonald’s e molte altre.

Zone speciale europee

È dai primi anni del nuovo millennio che all’Unione europea sono arrivate denunce sul fatto che molte multinazionali avevano trovato il modo di eludere il fisco degli stati nazionali grazie al fatto che le sedi europee erano in paesi con forti facilitazioni fiscali al fine di attirare investimenti esteri. Apple, come molte altre imprese, ha una sede in Irlanda che prevede una tassazione irrisoria per chi abbia investito in quel paese in cambio di assunzioni tra le persone del luogo. Fin qui, niente di eclatante. Per tutti gli anni Novanta del Novecento si sono moltiplicate «zone speciali» dove sono state sospese normative fiscali o quelle in difesa dell’ambiente, del consumatore, dei lavoratori. È stato fatto in Cina, India, Brasile, ma anche in alcune regioni europee. Quella che invece è risultata una «novità» è che imprese che avevano sedi in paesi con una fiscalità timidamente progressiva (più fatturi, più paghi, più profitti fai più tasse paghi) hanno svolto per anni «creative» procedure per eludere il fisco, facendo registrare le entrate proprio in quei paesi o «zone speciali».

31eco tim cook

Sono stati gli anni d’oro per le imprese, che non hanno versato tasse per centinaia di milioni di euro – uno studio dell’Unione europea parla di oltre mille miliardi di euro elusi fiscalmente dal 2007 ad oggi. Sono stati però anche gli anni durante i quali ci sono state petizioni popolari, audizioni del parlamento europeo affinché finisse quello che è stato definito uno scandalo alla luce del sole. Ma fino a quando era un affaire degli altermondialisti di Attac o delle associazioni dei consumatori, le multinazionali hanno reagito sdegnosamente con alzate di spalle, continuando imperterrite nella loro «finanza creativa». Un’arroganza che ha però dovuto fare i conti con un clima politico in fibrillazione negli Stati Uniti. Al di là dell’Atlantico, l’elusione fiscale è sì istituzionalizzata da anni, ma non deve mai superare certi limiti, violati i quali il fisco interviene duramente, multando e aprendo inchieste che hanno portato talvolta sul banco degli imputati amministratori delegati. E quando è partita una campagna internazionale contro i paradisi fiscali, il clima è cambiato anche in Europa.

La progressività perduta

Il 2010 è stato un annus horribilis per le multinazionali nel mirino degli attivisti. Non per la crisi globale, né per i profitti, che hanno invece continuato a crescere, bensì perché nelle stanze di Bruxelles i tecnocrati europei hanno stimato che l’elusione fiscale aveva raggiunto livelli insostenibili per le economie nazionali. Inoltre, Francia, Germania hanno puntano l’indice contro le major della Rete, considerandole responsabili non solo di elusione fiscale, ma di «estrarre» ricchezza dai contenuti senza versare un centesimo nelle tasche di chi la ricchezza – in termini di informazione, conoscenza, cultura – la produce. E la Francia ha subito pensato a una norma, ribattezzata «Google tax», per riaffermare il principio sovranista che la fiscalità, come il monopolio della violenza, è prerogativa degli stati nazionali alla quale nessuno può sfuggire. Obiezioni sono venute anche in sede di trattativa tra l’Unione europea e Stati Uniti sul Ttip (il trattato di libero commercio tra Usa e Europa), quando gli europei hanno espresso dubbi sulla «libertà di migrazione» dei dati dal vecchio al nuovo continente. E se Bruxelles vuole porre dei limiti alla libertà di sfruttamento commerciale dei big data raccolti in Europa, gli Stati Uniti hanno risposto con un inappellabile «niet».

A Bruxelles ha comunque messo a punto un piano – denominato Base Erosion And Profit Shifting – per consentire agli stati nazionali di recuperare un po’ delle tasse e dei profitti «esportati» dalle multinazionali. Un piano che dovrebbe far rientrare l’elusione fiscale in parametri socialmente compatibili – le formazioni populiste di destra o i partiti come Podemos, Syriza che hanno visto crescere il consenso elettorale hanno questo tema nei loro programmi. Ma non solo l’Unione europea prova a rettificare la logica del laissez faire. A suonare il campanello d’allarme è stata anche l’Ocse, che ha invitato tutti i paesi membri a lavorare per regolamentazione globale sia dell’elusione fiscale sia a stabilire sanzioni per i paradisi fiscali. Last but not least è entrato in campo anche il G20, che nell’ultimo incontro ha discusso le misure per «sanare» una vicenda che ha dell’incredibile: la sottrazione delle multinazionali da qualsiasi forma di controllo e «trasparenza» sul loro business.

La diffusione della notizia dell’accordo tra l’Agenzie delle entrate italiane e la Apple ha avuto un’eco rumorosa in Rete. Da una parte, emerge il fatto che il paradigma neoliberale della riduzione delle tasse per le imprese, lasciando inalterate quelle sul lavoro sans phrase, ha fatto il suo tempo. Dall’altra, tuttavia, è evidente che il ritorno alla tassazione progressiva è in salita.

Un neoliberismo incrinato

Certo, fa un certo effetto apprendere che l’Unione europea ha aperto una procedura anche contro McDonald’s, che ha secondo l’Unione europea, eluso il fisco come le imprese «immateriali» (le major della Rete), a testimonianza del fatto che l’aggiramento delle norme nazionali ha ignorato le tassonomia tra imprese materiali e immateriali cara ai cultori dell’economia della conoscenza. Ma l’accordo tra Apple e Agenzie delle entrate può trasformarsi nell’apertura del vaso di pandora, svelando ciò che politicamente era già noto: l’evasione fiscale e la tassazione rigida solo per i lavoratori sans phrase e per i pensionati è stato uno dei capisaldi dell’economia capitalistica mondiale degli ultimi quattro decenni. Difficile sarà prevedere quanto questo influirà nella claudicante economia della Rete. E difficile sarà capire quali saranno gli effetti sulla società di Tim Cook, che dopo le accuse di aver usato società per produrre i suoi prodotti di successo che usano un regime semischiavistico per i lavoratori, deve vedersela anche con l’accusa di aver aggirato il fisco. Accuse brucianti, che l’espressione politically correct del volto di Tim Cook non riusciranno certo a ridurre al silenzio. A meno che al suo posto non subentri quello cinico e sfrontato dell’italico Maurizio Crozza.