Possono esserci decine di buone ragioni per revocare una scorta, o anche solo per paventarne la revoca.

Ma ce n’è una certamente sbagliata: l’aver criticato il ministro degli Interni. La minaccia di Matteo Salvini, forse resa ancora più grave dallo stile scelto, l’avvertimento implicito, non è faccenda che riguardi lo scrittore Roberto Saviano, sul quale ciascuno può pensare ciò che vuole. Attiene solo allo stile del ministro e vicepremier, e all’idea di potere che ne traspare.

«Saranno le istituzioni competenti a valutare se corra qualche rischio, anche perché mi pare che passi molto tempo all’estero», così il responsabile del Viminale, tra una dichiarazione di guerra alle Ong e l’altra, giusto all’indomani di una critica acuminata mossagli dallo scrittore napoletano. Decidere in materia non spetta al ministro, e lo sa anche lui. Come sapeva benissimo di non poter censire etnicamente nessuno. Ma è il suo stile e sarebbe un errore scambiare i ringhi in questione per pure boutade pubblicitarie.

Sono segnali e in quanto tali pericolosi. A volte come e anche più delle stesse misure concrete.

Un ministro che minaccia un nemico politico, che lascia capire di non gradirlo affatto, dà coraggio e forza a chi in un modo o nell’altro vorrebbe sbarazzarsene, proprio come un ministro che minaccia di censire i Rom legittima e autorizza chiunque non veda l’ora di sfogare frustrazioni e pregiudizi.

La reazione è stata corale. La scorta di Roberto Saviano non verrà rimossa.

Ma non era questo l’obiettivo di Salvini. Il segnale è arrivato comunque e non solo all’autore di Gomorra. Ora chiunque si senta troppo in vena di criticare, inclusi moltissimi meno visibili e dunque meno protetti di Saviano, sa che ciò non sfuggirà allo sguardo del nuovo alto loco, sente olezzo di editto bulgaro, registra il brutale invito a moderare i toni e a esercitare la debita autocensura.

Prima che intervenga la censura vera e propria. Non è il cambiamento promesso, ma l’eterno ritorno dell’uguale, delle mire censorie, delle allusioni minacciose seguite spesso dagli interventi brutali, che nella politica italiana equivale spesso al peggio.