Altissimo, piuttosto brutto, troppo magro e troppo impressionabile di carattere, Hans Christian Andersen aveva però una buona voce. Durante la sua infanzia dickensiana (più per ambientazione e miseria economica che per infelicità vera e propria), di sera ascoltava con stupore le Mille e una notte che gli raccontava un padre ciabattino con velleità letterarie, ma di giorno animava le marionette del teatrino domestico con dialoghi fitti fitti e, quando poteva, si lanciava in acuti gorgheggi. Per anni – così scrisse nella sua autobiografia mitizzata La favola della mia vita – rimase convinto che, essendo la Cina sotto le acque del fiume di Odense, un giorno il principe di quel regno lontanissimo lo avrebbe preso e portato via, per intrattenere la corte a palazzo con la sua dote canora.

Quel sogno non si avverò: Andersen a 14 anni si trasferì a Copenaghen per diventare cantante, attore e ballerino, poi prese a scrivere ossessivamente poesie e drammi per il palcoscenico e finalmente venne intercettato da Jonas Collin, direttore del Royal Theater: il suo mecenate colse il talento del giovane che sgomitava per arrivare a tutti i costi, ma notò anche le sue lacune di formazione e pensò bene di indirizzarlo verso una istruzione adeguata alle aspirazioni. Ci si impegnò, dandogli sia lezioni private che raccomandandolo al rettore della scuola di Slagelse. Hans Christian divenne così un pensionante fuori età, preso di mira dai compagni tutti più piccoli, ma continuò a studiare fino all’università. Perse l’alone da autodidatta, indossò il nuovo sogno che lo voleva poeta e conservò intatta quella vena fantastica che lo rese poi celebre in tutto il mondo. Perché nonostante i romanzi (tra cui L’improvvisatore che ebbe grande notorietà e fu inventato e scritto in Italia), i drammi teatrali e i versi scritti a più riprese dall’autore danese, la sua fama incontrastata è dovuta alle fiabe, rese dalla sua lingua particolarissima un genere letterario originale e compiuto. Racconti per lettori di ogni età, soprattutto rivolti ad adulti sospesi in una eterna adolescenza, e a bambini più smaliziati, quelli che si stavano affacciando sull’orlo della Storia europea come individui a sé, figli della piccola borghesia di provincia e poi di tutte le classi sociali.

Torna tra gli scaffali delle librerie italiane la riedizione del prezioso Fiabe e storie pubblicato da Donzelli (traduzione integrale dal danese di Bruno Berni che l’ha rivista e riadattata, introduzione di Vincenzo Cerami, pp. 874, euro 37), arricchita dalle tavole dell’illustratore argentino Fabian Negrin, cui viene dedicata la mostra appena inauguratasi in occasione del Pisa Book Festival. Per nulla intimidito dalle icone create per bambine dalla statura di un pollice, guardiani di porci, brutti anatroccoli, regine delle nevi da quel magistrale disegnatore che fu Vilhelm Pedersen – l’ufficiale di marina produsse 125 incisioni su legno a corredo di una edizione tedesca in cinque volumi del 1849 – Negrin va dritto per la sua strada, offrendo un tocco onirico alle «fiabe intrise di realtà» dello scrittore di Odense.

Il libro raccoglie, in ordine cronologico, la produzione di Andersen composta fra il 1835 e il 1872 (morì nel 1875), attraversando l’arco di una vita, inframmezzata da molteplici viaggi e da altrettante delusioni d’amore: lo scrittore ebbe una grande incertezza sessuale e non si capì mai se fu omosessuale; di fatto, quando si invaghì di donne come la cantante svedese Jenny Lind, alla cui figura è dedicata la storia dell’usignolo dell’imperatore, la relazione non si concretizzò. Il suo successo fu sempre crescente, arrivando alla progressiva cancellazione dell’uditorio dei «piccoli», a favore di un lettore borghese, grande, grosso e vaccinato rispetto alle allusioni, i doppi sensi, le ironie amare.

Nella letteratura di Hans Christian Andersen non spira nessun vento da filologo. Pur se debitore ai fratelli Grimm, di soli vent’anni più vecchi di lui, per la raccolta di storie popolari, immerso nella medesima temperie culturale romantica che conduceva verso la consapevolezza delle radici culturali di un popolo, lo scrittore danese non diventò un antiquario di fiabe.

La sua dichiarazione di intenti, d’altronde, è chiarissima, affidata a Madre Sambuco: «Proprio dalla realtà viene fuori la fiaba più meravigliosa, altrimenti come avrebbe fatto il mio cespuglio di sambuco a uscire dalla teiera?». Inventore infaticabile, Andersen animò le nature morte (dagli stracci all’ago da rammendo fino al grano saraceno), fece parlare i suoi personaggi con un linguaggio colorito, pieno di interiezioni e assonanze, e preferì il dialogo diretto alla narrazione per lettura.

Attinse al patrimonio orale comune a tutto il nord Europa, ma quella non fu l’unica fonte. Rimuginò sui suoi ricordi, memorizzò il folklore della sua terra (sua madre, lavandaia alcolizzata, che terminò l’esistenza in un ospizio per indigenti, lo incantava con le magie delle veggenti del paese), guardò alle fiabe d’arte di Hoffmann e pescò dalle saghe e ballate del Medioevo germanico, comprese alcune libertà sintattiche che costellano i suoi racconti, come ad esempio l’uso di passato e presente mescolati insieme. Umanizzò i personaggi, sbirciò negli ambienti degli emarginati e fu moderno soprattutto nell’uso della lingua che piegò all’espressività – paratassi al posto di frasi subordinate, uso parsimonioso dei punti così da rendere la lettura scorrevole e rapida, emozioni rese con vocali ed esclamazioni. Una lingua che, all’epoca, venne criticata perché troppo simile a quella parlata. Andersen venne anche accusato di egocentrismo e di disinteresse verso l’Europa del suo tempo. Eppure è proprio l’inesauribile curiosità verso il quotidiano a irrorare di linfa vitale le sue fiabe, a nutrire l’ossatura di ogni singola creazione.

C’è un fil rouge nelle innumerevoli storie zampillate dalla sua mente? Sicuramente l’idea di metamorfosi in cui si riconosceva anche lo stesso scrittore (Il brutto anatroccolo è senz’altro autobiografico), ma anche l’ossessione dark per la morte: gli studiosi hanno rilevato che su 156 favole, solo in un sesto non c’è riferimento alcuno alla morte. In ogni caso, è molto più presente dell’amore. Qui spiccano il pupazzo di neve innamorato del bagliore della stufa, la sirenetta pronta a rinnegare la sua natura per avvicinare il principe, il soldatino di stagno con una gamba sola che si strugge per la ballerina di carta. Nei tre casi, nessun happy end è previsto. Come sanno gli adulti e i bambini di tutto il mondo.