Come in ogni analisi storica, quella del traumatico colpo di Stato del 1973 e della dittatura che instaurò porta a chiedersi se quel che viviamo oggi sarebbe accaduto ugualmente, quanto debba considerarsi un frutto di quegli eventi e quanto di quello che li ha preceduti. A costo di semplificare, toccherò cinque aspetti che caratterizzano la società cilena attuale, cercando di evidenziare in che modo la passata dittatura li plasmi e li definisca.
I diritti umani come «frontiera»
Qualunque fosse il giudizio sulla democrazia che aveva preceduto il golpe, nessuno immaginava che in Cile si sarebbe instaurato un sistema di governo basato sulla repressione spietata degli oppositori, e che segretezza, menzogna e terrore sarebbero diventati pratiche di Stato. Giunse come una sfida per la sinistra perseguitata e sconfitta l’approccio ai diritti umani, la visione per la quale il diritto alla vita non appartiene né ai vincitori né ai vinti, ma a tutti gli esseri umani. Su questa via, la democrazia fu un valore rifondativo che permise un’alleanza fra l’insieme delle opposizioni. I sostenitori della dittatura insistono tuttora nell’occultare, mistificare o giustificare le violazioni dei diritti umani; una posizione indifendibile che adesso li emargina.
Il divario democrazia e dittatura
Prima del colpo di Stato del 1973, le analisi del conflitto politico riconducevano in gran parte alle divisioni della guerra fredda fra socialismo e capitalismo. La dittatura di Pinochet cercò di trarre vantaggio da questa caricatura, bollando ogni oppositore come burattino del comunismo internazionale; la dottrina della sicurezza nazionale definiva «nemico interno» chiunque fosse considerato sostenitore del blocco socialista. Chi era contro la dittatura sapeva che queste accuse non avevano alcun fondamento; il lavoro politico degli oppositori dei diversi orientamenti, molto prima della caduta del muro di Berlino aveva individuato nella contrapposizione fra democrazia e dittatura il vero crocevia che i cileni avevano di fronte. E tuttora, questa separazione è una parte ostinatamente costitutiva dell’anima politica cilena.
Consenso elettorale alla destra
Non cessa di stupire il fatto che in Cile esista un consenso importante e massiccio a una destra politica autoritaria, a partire da quel 44% ottenuto da Pinochet nel referendum del 1988. All’epoca lo si poteva attribuire alla disinformazione o alla paura, ma a distanza di 23 anni dobbiamo pensare che la politica della dittatura abbia consolidato una destra che, dalla sua sconfitta del 1920, non era più riuscita a guadagnare appoggio elettorale, e per l’impossibilità di accedere al governo per via elettorale aveva scelto strade extraistituzionali. Le prossime elezioni possono ridimensionare la componente autoritaria di questa base di appoggio, ma la destra manterrà una quota di consensi significativa.
Il persistere delle disuguaglianze
Il Cile era un paese diseguale già molto prima della dittatura di Pinochet. Mortalità infantile, epidemie, mancanza di cure hanno tormentato la popolazione per buona parte del XX secolo. Nelle generazioni nate prima del 1960 coesistevano analfabeti e docenti universitari, proprietari di case e persone poverissime, operai sindacalizzati e contadini ai quali era proibito. I canali di mobilità sociale non avevano sostegno istituzionale e si basavano su «favori», «raccomandazioni» o, direttamente, «compravendite». La dittatura annullò i miglioramenti nella distribuzione del reddito realizzati dal governo Allende e arrivò a giustificare le disuguaglianze come condizione per la crescita economica oltre che come risultato di una mitica uguaglianza di opportunità.
La disuguaglianza materiale, per non parlare di quella nei rapporti sociali, è tuttora una sfida storica per i cileni. Non è il risultato di meriti o sforzi maggiori ma piuttosto della riproduzione di situazioni di privilegio vecchie di secoli.
Paura di dire
È difficile incontrare fra le persone presenti all’epoca del colpo di Stato, qualcuno che non ritenga il 1973 uno spartiacque nella vita: dopo, nessuno ha potuto tornare a vivere come prima. E tuttavia, per i cileni contemporanei, un «evento storico» come il golpe non si articola facilmente nelle biografie individuali. Al di fuori dei circoli ristretti nei quali si ha più fiducia, la famiglia e pochi amici, si evitano discussioni sulle tematiche pubbliche – per non dire sulla politica. La politica non diventa dibattito pubblico, ma rimane confinata alle conversazioni fra persone che la pensano allo stesso modo.
La sfiducia al primo posto
A livello pubblico, primeggia la sfiducia e tutti mantengono la propria opinione senza ascoltare l’avversario. Il silenzio occulta una storia della quale i cileni sono stati testimoni, beneficiari o vittime, e della quale non sanno bene che cosa pensare o dire. La difficoltà nell’esprimersi è però il brodo di coltura nel quale crescono la crisi di rappresentanza e il disimpegno dalla politica. Alla fine degli anni ’60, cambiare la società sembrava necessario e anche possibile. C’era un tale consenso sulla necessità di cambiamento che si arrivava a dire che le differenze fra sinistra, centro e destra non riguardavano gli obiettivi o i mezzi per conseguirlo, ma solo la velocità alla quale doveva avvenire. L’esperienza ha mostrato che era molto più facile cambiare un sistema politico, compreso il sistema economico, che modificare la cultura o i modelli di organizzazione sociale.
* Ricercatore, Instituto de Estudios Avanzados (Idea)
Università di Santiago del Cile (Articolo di Le Monde diplomatique edizione cilena, traduzione di Marinella Correggia)