Nella parte finale del Libro Δ (Delta), poi all’inizio del Libro E (Epsilon) della Metafisica, Aristotele presenta la nozione di «accidente». Nel farlo, chiarisce che di esso non si può avere scienza. L’accidente, come ci insegna anche il linguaggio corrente, è un caso: scavo una buca per piantare un albero e trovo un tesoro. Non necessariamente, infatti, scavare una buca ci libera dalla schiavitù salariale. È accidentale, continua Aristotele, che un musico sia un (maschio) bianco: che dire di Nina Simone? Continua lo Stagirita: l’accidente è qualcosa di vicino al non-essere, per questo, di esso, non si dà scienza.

GLI ACCIDENTI – ed è ciò che conta – non appartengono all’essenza o sostanza di una cosa. Nella definizione di musico troviamo quella della sua sostanza, ogni musico è un animale umano; ma non il colore della pelle o quello degli occhi, il talento o l’antipatia. Vicino al non-essere perché insostanziale, casuale e giammai necessario. Può la scienza dell’essere in quanto essere, l’ontologia, occuparsi del caso? No, Aristotele non aveva dubbi.
Misurandosi con le neuroscienze più eclettiche, la filosofa Catherine Malabou pensa il contrario. Testo breve ma potente, Ontologia dell’accidente. Saggio sulla plasticità distruttrice (Meltemi, pp.120, euro 12) fa della plasticità neurale la chiave per rimettere l’alea al centro della scena. Non un caso qualunque, piuttosto un trauma, un incidente, una malattia, una separazione dolorosa che cambia il corso di una vita, irreversibilmente. Plasticità del cervello e del sistema nervoso, ma distruttrice.

ALLA PLASTICITÀ NEURALE Malabou dedica studi importanti già da un paio di decenni. In Italia è comparso nel 2007 il suo Cosa fare del nostro cervello (Armando editore), libretto imprescindibile per chi vuole misurarsi criticamente con l’ampia letteratura scientifica che, dai Settanta, ha smesso di descrivere il cervello come una macchina. Concetti quali «plasticità neurale» ed «efficacia sinaptica» hanno infatti definito una svolta decisiva: l’ingresso delle circostanze storico-sociali nello sviluppo cerebrale. Ripercorrendo i contributi oramai «classici» di Jeannerod, Changeux, LeDoux, Damasio, in Cosa fare del nostro cervello Malabou indica tre plasticità: quella di «sviluppo», ovvero la formazione delle connessioni neuronali, in un primo momento determinata dal punto di vista genetico ma già in seconda battuta influenzata dagli stimoli esterni; quella di «modulazione», ovvero la trasformazione delle connessioni tramite la modulazione dell’efficacia sinaptica, e qui diviene decisiva l’esperienza dei singoli; quella di «riparazione», ovvero i processi di rinnovamento neuronale e la capacità del cervello di fronteggiare le lesioni. L’incrocio di queste tre plasticità frantuma l’idea del cervello-macchina, facendo del cervello, inteso come organo incompiuto e relazionale, terreno massimamente politico.

Con Ontologia dell’accidente, però, Malabou fa un passo ulteriore: della plasticità interroga la sua capacità distruttrice. Intendiamoci: così come le connessioni sinaptiche si potenziano, in base all’abitudine e l’esercizio (es. apprendere a suonare il pianoforte), così possono avere depressioni a lungo termine. Ogni creazione porta con sé una contropartita distruttiva; si pensi all’apoptosi, il suicidio programmato delle cellule. Ma in questo caso si tratta di una plasticità che, a partire da un evento traumatico – sia esso una patologia cerebrale o un invecchiamento precoce, la fine disperata di una storia d’amore o la perdita del lavoro –, non ripara più, «senza compensazione né cicatrice, taglia il filo di una vita in due o in più segmenti che non troveranno più riconciliazione». L’accidente, allora, porta con sé una nuova individuazione o «forma d’essere», del tutto imprevista, una vera e propria «improvvisazione esistenziale».

NON STUPISCE ALLORA che Malabou torni su una pagina dell’Etica di Spinoza spesso trascurata, il breve passaggio in cui si indicano mutamenti di natura che non coincidono con la morte, e però ci trasformano in un individuo altro – il riferimento è al caso del poeta Góngora, che perse del tutto la memoria un anno prima di morire.

PENSARE queste modificazioni di forma, che non interrompono la nostra vita ma che piuttosto ne deviano il corso, è per Spinoza un modo per ribadire il carattere esteriore della morte in generale. Per Malabou, un tentativo fecondo di pensare l’ontologia oltre e contro il dualismo natura/storia. Attraverso la plasticità distruttiva, caso limite senz’altro negativo, così come in precedenza nell’uso filosofico e politico della plasticità biologica nella sua articolazione, brilla un materialismo originale, che fa delle neuroscienze e del loro oggetto, il cervello, «cassetta degli attrezzi» utile per ripensare il cambiamento radicale.