Mentre veniva pronunciata l’assoluzione per i sismologi accusati di aver rassicurato la popolazione aquilana, col fiato sospeso non c’erano solo gli imputati, condannati in primo grado, e i concittadini delle vittime. Sul tribunale puntava anche l’attenzione della comunità scientifica che ha considerato l’inchiesta un «processo alla scienza», con gli esperti nel ruolo di capro espiatorio.
In realtà, a giudizio non c’erano solo sismologi, ma anche i vertici della Protezione Civile del 2009, Bernardo De Bernardinis (vice capo del settore tecnico del dipartimento) e il numero uno Guido Bertolaso (stralciato a causa degli altri procedimenti a suo carico). L’unica condanna in appello è toccata proprio a De Bernardinis.

L’inchiesta che ha portato alle due sentenze ha riguardato un singolo episodio: la riunione del 31 marzo 2009 tra Protezione Civile, Commissione Grandi Rischi ed enti locali. Era stata organizzata da Bertolaso per placare l’allarmismo generato da Giampaolo Giuliani, convinto di aver elaborato un sistema di previsione dei terremoti (che il 6 aprile fallì). L’incontro durò appena quaranta minuti e si concluse con una conferenza stampa della Protezione Civile dai toni rassicuranti.
Sui modi e i tempi di quella riunione si è concentrata l’accusa. In primo luogo, essa aveva un carattere più politico (arginare Giuliani) che scientifico, come provato dalle telefonate di Bertolaso intercettate. Inoltre, la frettolosità della riunione, secondo l’accusa, mostra la superficialità del comportamento dei suoi partecipanti. Infine, solo una colpevole incoscienza poteva spiegare le dichiarazioni di De Bernardinis, che invitò i cittadini a brindare in quanto proprio lo scarico graduale di energia dello sciame sismico scongiurava l’eventualità di una scossa più forte.

L’esigenza dei media

In appello hanno prevalso le ragioni della difesa. Secondo la versione dei sismologi, la riunione non fu così rapida per negligenza, ma perché sul rischio sismico a breve termine c’era poco da dire. Il lungo sciame non costituiva di per sé un fattore di allarme specifico. Dal 1900, ventidue volte su ventitré gli sciami si sono conclusi senza terremoti.
Il «mancato allarme» degli esperti, dunque, non andava interpretato come una rassicurazione. Se questo è il messaggio passato, le responsabilità vanno addossate in primo luogo al protagonismo della Protezione Civile diretta da Bertolaso. La Protezione Civile teneva anche i rapporti con i media, che non sono esenti da colpe. Lo scellerato invito al brindisi di De Bernardinis, ad esempio, non avvenne dopo l’incontro con gli esperti, ma subito prima: fu la rete televisiva locale Tv Uno ad invertire l’ordine, per esigenze «narrative».
Come si spiega allora la retromarcia del tribunale dell’Aquila? Il comportamento dei sismologi fu certamente ambiguo. È difficile concedere l’attenuante dell’ingenuità a scienziati di rango come Boschi, con esperienze alla testa di importanti istituzioni scientifiche e autore di qualche colpo basso. Fu proprio Boschi, in un episodio da tragicommedia all’italiana, ad aizzare la senatrice Gabriella Carlucci contro Luciano Maiani, uno dei più importanti fisici teorici a livello internazionale e rivale di Boschi nella corsa alla presidenza del Consiglio nazionale delle ricerche.

Per ironia della sorte, oggi Luciano Maiani presiede la Commissione Grandi Rischi. Ma forse la stessa scaltrezza consigliò a Boschi di non esporsi troppo all’Aquila. Secondo il verbale della riunione (stilato a sisma già avvenuto) gli scienziati si sono limitati al loro dovere, senza censure né manipolazioni. In mancanza di altre prove, l’assoluzione era la scelta obbligata.

Soggetto d’imbarazzo

Un terremoto è un oggetto d’indagine perfetto per mettere in imbarazzo un tribunale. Se su un lunghissimo periodo di tempo è possibile individuare zone più pericolose di altre, ogni altra affermazione risulta azzardata.
Un recente saggio, Terremoto e rischio sismico, scritto da due sismologhe dell’Ingv, Maria Grazia Ciaccio e Giovanna Cultrera (Fondamenti, edizioni Ediesse, 2014 pp.209, euro 12), aiuta a capire perché gli scienziati considerino il terremoto un esempio paradigmatico dell’imprevedibilità. La casualità che contraddistingue molti fenomeni, dai dadi alla radioattività, in genere può essere affrontata con l’analisi statistica.
Tirando un dado molte volte, ad esempio, impariamo quanti lanci servono, in media, per ottenere un «sei». I terremoti invece sfuggono all’analisi tradizionale. Per una particolare complessità (la legge di Gutenberg e Richter, simile a quella che governa le fluttuazioni della borsa) non è possibile stabilire nemmeno a grandi linee quando tornerà il terremoto, pur disponendo di dati storici dettagliati sul passato.

Anzi, la mappa sismica dell’Ingv, un vanto della geologia italiana, è finita per ritorcersi contro gli stessi scienziati: possibile che, con tante informazioni a disposizione, quaranta minuti bastassero a esaurire l’argomento? Eppure, l’afasia dei ricercatori non si spiegava con la loro superficialità. L’imprevedibilità dei terremoti è la scoperta vera, mentre la pretesa opposta appartiene ad una cultura pre-scientifica che abbonda di santoni e ciarlatani.
Gli scienziati sanno bene che questa imprevedibilità non è un’anomalia, ma caratterizza un gran numero di fenomeni naturali e sociali (terremoti, mercati, evoluzione, valanghe). Il fisico danese Per Bak diede loro un nome da collettivo politico, «sistemi critici auto-organizzati», e per chiarire l’universalità di questi fenomeni nel 1996 dedicò loro in saggio intitolato niente meno che How nature works, «Come funziona la natura».
Sempre più spesso ai giudici viene chiesto di entrare nel merito della scienza di frontiera e delle sue affermazioni. Cosa dire, quando non c’è niente da dire? L’indagine scientifica e quella giudiziaria, però, seguono logiche diverse e talvolta conflittuali. Le verità scientifiche non hanno la pretesa della certezza che invece la procedura penale insegue. Però i ricercatori si sono dotati di strumenti di discussione, valutazione e revisione che permettono di raccogliere consenso anche su affermazioni scientifiche di tipo probabilistico e per loro natura provvisorie.
Interpretare tali informazioni richiede competenze rare e conduce a sentenze facilmente ribaltabili. Anche nel recente caso Stamina, i Tar di mezza Italia hanno bloccato e autorizzato a casaccio le terapie di Vannoni, nonostante il parere unanime della comunità scientifica. La difficoltà di portare una materia fluida come la ricerca scientifica nei tribunali ha fatto sì che la certezza del diritto e il dubbio della ragione si siano scambiati le parti: ora abbiamo scienziati compatti e certissimi e giudici ondivaghi come studenti impreparati.

Fra vaghezza e onestà

Ma se aveva ragione Bak e la natura funziona così, il linguaggio della probabilità diventa una chiave indispensabile per interpretare il presente. In un altro bel libro appena pubblicato dal fisico Angelo Vulpiani (Caso, probabilità, complessità, Ediesse 2014, pp.180, euro 12) si legge che ogni mese, in media, assistiamo a un «miracolo», cioè un evento che ha una probabilità di accadere di uno su un milione. Non c’entra la fortuna. È che la natura ci si presenta soprattutto sotto forma di probabilità e, se non si è attrezzati, si scambiano fatti ordinari per miracoli o disgrazie ordite da oscuri complotti.
Nonostante gli appelli numerosi della comunità scientifica la scuola non fornisce un’adeguata alfabetizzazione sui rudimenti (almeno) della statistica. Una maggiore familiarità con questi strumenti conoscitivi avrebbe reso più difficile manipolare le informazioni provenienti dagli scienziati. E i sismologi non avrebbero potuto limitarsi ad affermazioni necessariamente o deliberatamente vaghe, dietro cui ha potuto nascondersi l’onestà intellettuale di alcuni e il brivido del potere di altri.