I libri hanno le loro chiavi di accesso: a volte si offrono immediatamente, altre è necessario cercarle, con pazienza. Per entrare in Nerosubianco. Fenomenologia dell’immaginario jazzistico (Arcana, pp.142, euro 16,50) di Giorgio Rimondi indicherei il terzo capitolo: «Ritratto in jazz». Esso si chiude con una definizione della fotografia quale «un’arte fatta di precisione, scrupolo, rispetto. Un’arte che non si limita a registrare la realtà ma la reinventa, sottraendola al nulla, un attimo prima che vi sprofondino, particolari che forse non interessano la Storia con la S maiuscola, ma certamente le piccole storie di noi viventi» (p.43).

Prima di tornare sulle riflessioni generate dallo scatto Jazz band (1931) della fotografa triestina Wanda Wulz, ci si soffermi sull’autore di Nerosubianco. Da un ventennio Rimondi elabora e propone testi di grande spessore e profondità che riguardano jazz, letteratura e filosofia, da Billie Holiday ad Amiri Baraka, da La scrittura sincopata (1999) a Il suono in figure. Pensare con la musica (2008).

È un autore che indaga, si interroga e non si ferma allo stereotipo, al mito, all’agiografia; le sue acutissime tesi, sostenute da solidi studi, sono scritte con chiarezza e stile personale, in una sorta di «saggismo narrativo». In Ritratto in jazz parla di una giovane fotografa triestina che negli anni ’30 «partecipa a quel movimento di idee e gusti che dai primi anni Venti accoglie tra i suoi modelli, insieme ad altre forme artistiche, il jazz» (p.39).

Oltre alla capacità di abbracciare «in una sola immagine soggetto fotografante e oggetto fotografato» (p.41), la Wulz nello scatto Jazz Band coglie e sovrappone le suggestione del circo e della musica afroamericana, due istanze care alle avanguardie europee di allora, da Trieste fino alla Russia Sovietica.

Questa è una delle dieci storie-capitoli (prefazione acuta di Paolo Fresu) che Rimondi costruisce e collega parlando di immagini riferentesi a Buddy Bolden, alle prostitute di New Orleans ritratte da Ernst Bellocq, a Cole Porter, Sinatra/Nat Cole, Billy Strayhorn, Jack Kerouac, Thelonious Monk, agli occhi di Miles Davis, a Valerie Wilmer ed Ornette Coleman. Gli archivi fotografici, è – semplificando – la tesi dell’autore, servono a conoscere il jazz come quelli sonori e bibliografici. «Creatura paradossale, la cosiddetta jazz photography vorrebbe infatti racchiudere l’effimero della vibrazione sonora nel fattuale di un supporto visivo. Non paga di ciò, vorrebbe rendere testimonianza di un’arte legata all’accettazione dell’imprevisto (…).

Eppure proprio qui, nello spazio di questa aporia si gioca la sua partita più interessante: nell’istante in cui l’improvvisazione jazzistica e l’istantanea fotografica cercano di cogliere l’attimo, giocando a rimpiattino con kronos, il tempo lineare, per provare di incontare kairos, l’istante propizio» (p.134, postfazione dall’immagine all’immaginario). Le immagini chiedono sempre di essere pensate.

luigi.onori@alice.it