Cosa lascerà dietro di sé Obama, il cui mandato presidenziale scade fra poco più di due anni? Quale partito Democratico uscirà dai suoi otto anni di presidenza? Le domande sono tanto più urgenti quanto il candidato che tanti entusiasmi aveva suscitato nel 2008 sembra «uscire tristemente di scena», come si sono affrettati a scrivere molti commentatori dopo il risultato delle elezioni di midterm del 4 novembre, quando i Repubblicani hanno conquistato anche il Senato, completando così il loro controllo del Congresso.

Prima di tutto i dati: i Democratici, nelle elezioni per la Camera della settimana scorsa, hanno ottenuto circa 34,2 milioni di voti, contro i 39,2 dei Repubblicani, un ampio margine di 5 milioni di voti a favore di questi ultimi, che si è tradotto nella più ampia maggioranza di seggi ottenuta dal partito dopo il 1946. Anche il Senato avrà una solida maggioranza del Gop, benché non sufficiente per superare un eventuale ostruzionismo dei Democratici o i veti di Obama.

Questo risultato negativo per il partito non predice affatto il risultato delle presidenziali del 2016, che dipenderà da vari fattori tra cui la qualità dei candidati, l’andamento dell’economia e dei salari, imprevedibili sviluppi in politica estera. Quello che sappiamo della storia politica americana è che i successi nelle elezioni per il solo Congresso sono sì un referendum sul presidente in carica ma non influenzano gli esiti delle presidenziali di due anni dopo: la larga vittoria dei Repubblicani nel 1946 non impedì al democratico Harry Truman di vincere nel 1948, così come la vittoria dei Repubblicani nel 1994 non impedì il trionfo di Clinton nel 1996 e il successo dei Democratici nel 1998 non fece materializzare una facile vittoria per Al Gore nel 2000 (benché in questo caso si trattasse di una vittoria «rubata» dai Repubblicani grazie alla Corte suprema).

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La ragione di questo trend storico è semplice: le presidenziali, per il loro valore simbolico, attirano alle urne circa il 60% degli aventi diritto (un tasso di partecipazione leggermente salito nel 2008 grazie a Obama ma abbastanza stabile nel lungo periodo) mentre le elezioni per il Congresso convincono solo il 40% (o anche meno) degli americani adulti a recarsi ai seggi. Quest’anno hanno infilato la scheda nell’urna solo il 36,3% degli aventi diritto, il dato peggiore dal 1942. Nel 2012 votarono circa 128 milioni di cittadini, quest’anno hanno votato solo 75 milioni, una differenza di oltre il 40%.

Ciò che è rilevante, ai fini dell’analisi, è che questi 75 milioni hanno una composizione demografica assai diversa dai 128 milioni di due anni fa: sono un elettorato più «bianco», più anziano, più maschile di quello del 2012. In altre parole, la cosiddetta coalizione Obama, giovani, neri, ispanici e donne, ha votato assai meno della coalizione avversaria, fatta di bianchi a reddito medio-alto, in prevalenza maschi. Il futuro del partito Democratico dipende quindi dalle sue capacità di mobilitazione del suo elettorato e la capacità di mobilitazione dipende dal messaggio. Con quale messaggio i Democratici si sono presentati nel 2014 e con quale si presenteranno nel 2016?

Il problema sta tutto qui: il partito aveva poco da offrire ai suoi elettori perché la situazione delle minoranze, negli anni di Obama, non è affatto migliorata. In parte non è colpa del presidente, privo di una maggioranza parlamentare per far approvare importanti riforme come quella sull’immigrazione che avrebbe regolarizzato la situazione di decine di milioni di irregolari, prevalentemente ispanici. Al contrario, le espulsioni di «clandestini» sono fortemente aumentate.
In parte il problema sta nello scarto fra la percezione del presidente come dell’uomo «più potente del mondo» quando invece i suoi poteri sono rigorosamente circoscritti dalla costituzione e Obama non è mai stato incline a forzarli come molti suoi predecessori avevano voluto e saputo fare.

In larga parte, però, la responsabilità della debolezza politica dei Democratici sta proprio nel carattere di Obama, sempre oscillante fra tentativi di conciliazione con i Repubblicani e rivendicazione, invece, degli interessi dei giovani, dei lavoratori a basso reddito, delle donne. Obama, per carattere e formazione culturale, è un politico centrista, che crede nella razionalità dei propri argomenti e preferisce fare appello all’intelligenza degli avversari che alla mobilitazione dei suoi seguaci. In un’epoca di forte polarizzazione ideologica, quando i Repubblicani hanno deciso di dire «no» a qualsiasi proposta della Casa bianca (comprese alcune delle loro stesse idee, fatte proprie da Obama) i risultati pratici non potevano che essere modesti.

Alla fine, in otto anni di mandato, Obama potrà vantarsi solo di aver razionalizzato in maniera modesta il settore sanitario, e forse neppure quello perché la Corte suprema, nei prossimi giorni, potrebbe dare un colpo di piccone decisivo all’Affordable Care Act, più noto con il nomignolo spregiativo coniato dai Repubblicani, di ObamaCare. Anche ammesso che la legge sopravviva all’esame di una Corte suprema fortemente conservatrice, il suo impatto è stato finora modesto: solo 7 milioni di americani privi di copertura sanitaria ne hanno usufruito, mentre decine di milioni restano ancora privi di assicurazione.

Tradizionalmente deboli, i partiti americani sono largamente dominati dal candidato che si impone nelle primarie per le elezioni presidenziali. Da questo punto di vista, il ritorno sulla scena della famiglia Clinton, stavolta rappresentata da Hillary, non è una buona notizia: Bill Clinton è ancora un politico popolarissimo e certamente farà l’impossibile per assicurare il successo della moglie nel 2016 ma è dubbio che Hillary abbia un grande appeal tra i giovani, che magari non erano neppure nati quando lei divenne la first lady, nel 1993. Contro di lei potrebbe giocare, inoltre, la tradizione che rende sempre difficile, per un partito, vincere tre elezioni presidenziali di seguito. I Repubblicani potrebbero presentare un candidato giovane come i senatori Marco Rubio o Paul Ryan, o addirittura il fratello di George W. Bush, l’ex governatore della Florida Jeb Bush.

In definitiva, ciò che conterà sarà il messaggio politico, la prospettiva che i Democratici sapranno dare a un’America sfiduciata e ostile, inferocita contro una classe politica che ha permesso alla disuguaglianza di esplodere a livelli mai visti, qualunque fosse il partito al potere.