Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi è un’opera complessa, anfibia, perciò difficile da eseguire. Il libretto e la partitura odierni sono il frutto di due cantieri aperti e chiusi dal compositore a distanza di molti anni: il primo nel 1857 per il Teatro La Fenice di Venezia, dove l’opera fece fiasco; il secondo nel 1881 al Teatro alla Scala di Milano, dove invece trionfò. Nel tempo trascorso fra le due versioni, grandi cambiamenti sono intervenuti nella poetica verdiana e nella storia dell’opera: mentre Wagner con i suoi drammi ha esplorato la possibilità di un dramma musicale non più articolato in strutture modulari e iterative (scene, recitativi, arie), ma in forme aperte ed espanse corrispondenti agli atti, Verdi si è messo alla prova nel genere del grand-opéra con Don Carlos (1867) e Aida (1871), raggiungendo traguardi simili.

La versione definitiva del Boccanegra è un palinsesto dove la vecchia e la nuova maniera verdiana si sovrappongono, tentando, come già in Macbeth (1847, 1865), una sintesi perigliosa e a tratti impossibile tra l’articolazione tradizionale in forme chiuse del melodramma romantico e il neonato ideale della continuità del discorso drammaturgico-musicale (l’autore stesso diceva dell’opera: «Gli ho voluto bene come si vuol bene al figlio gobbo»). Ai direttori d’orchestra si chiede perciò una duplice perizia: saper impugnare e dominare i ritmi talvolta ancora marziali e i pezzi di bravura del Verdi all’apice della carriera e allo stesso tempo valorizzare le ricercatezze timbrico-armoniche e la coerenza delle tinte dall’inizio alla fine del dramma del Verdi maturo.

La sfida esecutiva è enorme. Purtroppo Stefano Ranzani, che dirige il Boccanegra alla Scala dal 31 ottobre al 19 novembre alternandosi con Daniel Barenboim, pur essendo sempre corretto e pur avendo fatto opera di fine cesello sul Preludio, manca di questa versatilità. Così a fatica sottolinea la grandeur della rievocazione storica voluta da Verdi, dissipando parte delle atmosfere austere del prologo, del consiglio, della congiura, del dialogo tra i vecchi Fiesco e Simone, della morte di quest’ultimo. A fatica ci fa gustare gli slanci epici di Adorno e le prelibatezze cromatiche che preludono all’aria di Amelia, bisognose di tempo e fraseggio indugianti.

Le scene di Pier Paolo Bisleri sono decorose, nel senso che decorano stancamente la vicenda (rubacchiando idee preesistenti: i cipressi che calano dall’alto, il coro vestito in abiti contemporanei al compositore). Della regia di Federico Tiezzi è presto detto: non c’è, abbandonando solisti e coro a movimenti stereotipi e spesso goffi. Quanto ai cantanti, l’incontro del vecchio Leo Nucci (l’aitante Simone) e del giovane Alexander Tsymbalyuk (il vecchio Fiesco) è istruttivo: da un lato una voce dallo smalto ormai incrinato e poverissima di armonici che sorregge i dramma con una tecnica e una presenza scenica invidiabili, dall’altro una voce superbamente rigogliosa ma ancora a tratti acerba nel fraseggio. Soave e convincente Carmen Giannattasio (Amelia), bravissimo Vitaliy Bilyy (Paolo). Strozzato Ramón Vargas (Adorno).