L’attacco del presidente della Confindustria al sindacato va letto insieme alle parole spese, qualche giorno prima, dal capo del governo. La riduzione delle tasse, aveva scandito Renzi, è un atto di restituzione della libertà. In questo ritrovato eden dei diritti dell’uomo a non cedere i frutti della propria industria allo Stato dissipatore, non poteva mancare l’ira di Squinzi contro il sindacato, denunciato come l’ostacolo principale alla modernizzazione. Si raggiunge, in questo armonioso coro politico-padronale, alzato contro il principio costituzionale della tassazione progressiva (come fondamento della cittadinanza sociale e delle politiche pubbliche), e in sfregio al ruolo democratico del sindacato del conflitto, il punto più alto del trionfo della destra economica. È il compimento dell’ideologia della seconda repubblica: la libertà come immunizzazione dal fisco e la modernità come liberazione della fabbrica dal punto di vista operaio. Peccato che questa ricetta gloriosa (criminalizzazione del fisco e sacrificio dei diritti dei lavoratori) non funzioni e abbia anzi determinato il declino in un capitalismo marginale e semiperiferico. In esso, i soli primati contesi dall’Italia sono quelli dell’evasione fiscale, dell’economia criminale. Per non parlare dei simboli decadenti di un’imprenditoria con infimi livelli di istruzione e con una carenza strutturale nella sua rete cognitiva, manageriale e tecnologica.

Assente in quasi tutti i settori trainanti dello sviluppo (computer, telefonia, nanotecnologie, informatica, biotecnologie, economia della conoscenza), il capitalismo italiano (quello che resta di esso dopo le acquisizioni straniere delle isole di eccellenza) cerca di sopravvivere senza innovare, competere, investire. Oltre all’evasione fiscale, alle richieste di depenalizzazione dei reati fiscali e societari, una certa impresa ormai decotta reclama, quali surrogati della propria incapacità concorrenziale e innovativa, la contrazione dei diritti, la precarietà infinita, il nero, il sommerso.
Tra le brillanti pratiche, in cui l’impresa italiana si distingueva e mostrava di avere ben poco da invidiare agli attori delle altre economie, c’era quella che produceva morti bianche a un ritmo industriale. Una pagina infinita di infortuni, feriti, tutta scritta in nome della modernità che sfida la salute, maltratta l’ambiente con l’esternalizzazione del danno, allunga i tempi.
Nei tribunali della repubblica ancora si processano le imprese per le loro acclarate responsabilità nelle morti per amianto, procurate dalla concezione padronale della modernità: i profitti come variabile indipendente, il corpo che lavora come semplice materiale accessorio. In un paese che ha prodotto Taranto, l’impresa dovrebbe serbare più remore nel pronunciarsi in tema di ostacoli sociali e sindacali alla bella modernità.
Preferiscono prendersela con il fisco, con i lavoratori e i sindacati perché così evitano di analizzare le responsabilità di un capitalismo senza capitali che ha scandito le vicende economiche, talvolta persino grottesche, della seconda repubblica. Da quando è stata smantellata la grande impresa pubblica (nella chimica, nella siderurgia, negli idrocarburi, nell’energia e quindi attiva nella ricerca applicata), l’economia italiana arranca, brancola nel buio senza più contare nella presenza di un vettore di sviluppo (grazie a competenze, esperienze tecnologie e gestionali) nei campi strategici.

E le politiche di privatizzazioni e di dismissioni del Tesoro (negli anni Novanta, l’Italia raggiunse terzo posto al mondo per i ricavi dalle vendite di giganti statali), varate dopo gli accordi Andreatta-Von Miert, e in risposta alle procedure europee di infrazione, non hanno visto l’impresa distinguersi nel cambio di fase. Senza più gli aiuti di stato (che il capitalismo non disdegnava malgrado l’ideologia liberista di facciata: il 55 per cento dell’ammontare complessivo dei soccorsi statali nei paesi dell’Unione europea era concentrato in Italia), l’impresa va alla deriva, incassa i dividendi e affoga nella concorrenza dei mercati.
Dopo un ventennio di declino, determinato dalla carenza di politiche industriali, dall’incapacità di disegnare un nuovo modello di sviluppo qualitativo, l’impresa si affida a Renzi. Che gli regala lo scalpo dell’articolo 18 («il dogma più radicale della sinistra dogmatica», dice), e si genuflette al cospetto di un maglione blu mormorando: «La sinistra europea dice grazie a Marchionne perché crea posti di lavoro». Un’impresa che ha fatto le fortune con gli incentivi per le rottamazioni, saluta nel rottamatore il suo uomo accasato a palazzo Chigi.
Con le sue parole anche Squinzi offre il cemento al governo del declino e si illude così di acciuffare la modernità. Proprio con questo rapporto di subalternità della politica all’economia (in nome del condiviso paradigma della disintermedizione ossia della liquidazione della rappresentanza sociale), non ci sarà mai una modernizzazione della struttura produttiva, una politica industriale, una effettiva internazionalizzazione delle aziende, una crescita dimensionale delle imprese oltre le asfissie del terzo capitalismo. L’economia avrebbe bisogno di statisti e invece Squinzi fa la sentinella alla chiacchiera di Renzi che spaccia per decisione politica.