Hanno riempito, fitta fitta, tutta Piazza del Popolo fino al Pincio, strabordando nelle vie limitrofe e in piazzale Flaminio. E anche – come si addice al cosiddetto «popolo delle partite Iva» – senza starsene con le mani in mano: ogni testa una bandiera, un cartello, uno striscione o una pettorina; trombe e fischietti in bocca. Perché nessuno tra i 60 mila o forse più (50 mila per la questura) imprenditori, commercianti, artigiani e dipendenti di ogni tipo di aziende micro, piccole e medie arrivati a Roma ieri da tutta Italia – ma soprattutto dal Nord – ha voluto perdere l’occasione di «tornare alla visibilità» in una manifestazione che gli organizzatori di Rete Imprese Italia non esitano a definire «un evento storico», la «più grande di sempre».

Un risultato strabiliante, eppure scontato per quei 14 milioni di persone impiegati a vario titolo nelle oltre 4 milioni di aziende familiari o con qualche decina di dipendenti (in tutto 9 milioni) che creano il tessuto produttivo italiano per eccellenza. «Il prossimo governo e il Parlamento devono prendere atto di questa grande forza e dell’enorme malessere: noi non molleremo, saremo propositivi ma incalzanti», avverte dal palco Marco Venturi, portavoce della Rete che raggruppa le 5 maggiori associazioni di settore: Cassartigiani, Cna, Confartigianato, Confcommercio e Confesercenti. «Ora il presidente del Consiglio ci deve convocare», avverte Venturi. E tutti sanno che si rivolge già a Matteo Renzi che però in questa piazza (molto distante dal sentimento confindustriale espresso da Giorgio Squinzi) entusiasma ancora meno di Enrico Letta.

«Senza impresa non c’è Italia, riprendiamoci il futuro», è lo slogan della manifestazione posto in bella mostra anche sul palco da dove prendono la parola i leader delle organizzazioni, con toni più o meno duri a seconda del proprio pubblico di riferimento. Il più “rude” è Giorgio Merletti, presidente di Confartigianto, che tra un «vaffa…» e l’altro usa un linguaggio più da “forconi” (ma qui non ve n’è traccia) che da Movimento 5 Stelle, il partito più gettonato della piazza. E infatti tra i rumorosi e colorati manifestanti la delegazione politica più folta – e ben accetta – è proprio quella grillina (l’ex viceministro dell’Economia, il Pd Stefano Fassina, per esempio, si prende dai manifestanti anche un po’ di fischi e di insulti) che da tempo battono i temi cari a imprenditori e commercianti: meno tasse, meno burocrazia, pressioni sulle banche per agevolare il credito o, come ricorda lo stesso M5S in una nota, «il finanziamento di un fondo di garanzia per le piccole imprese», «una seria legge anti-corruzione» e l’attuazione del loro emendamento approvato alla Camera «che permette alle aziende creditrici verso la Pubblica amministrazione di compensare le cartelle esattoriali di Equitalia».

Ma le istanze dell’impresa diffusa, dell’artigianato e del terziario di mercato sono tante; le storie infinite: diverse eppure sempre le stesse. C’è la coppia, proprietaria di un mobilificio di Verona che dal ’72 impiegava 15 persone e ora è ridotto alla conduzione familiare, che dice: «Aspettiamo altri 5 o 6 mesi e poi, se nulla cambia, ci trasferiremo in Spagna dove la pressione fiscale è al 30% anziché al 70%, oppure in Slovacchia o in Croazia». C’è l’imprenditore di Cuneo (da dove sono partiti in 700 per raggiungere Roma) che racconta: «Nella mia azienda su cinque impiegati due seguono solo le pratiche burocratiche, perché l’Italia è l’unico Paese d’Europa dove l’informatizzazione dei sistemi ha prodotto solo caos, e ora la cosa più complicata è fare per esempio un’iscrizione on line per un appalto pubblico».

A Fermo hanno riempito 40 pullman: «Della Valle e le grandi imprese lavorano tutte, la crisi ha ucciso solo noi piccoli o micro imprenditori – racconta il proprietario di tre supermercati marchigiani – la situazione è talmente grave che noi ci sostituiamo allo Stato anche nel welfare, facendo credito alla marea di pensionati che non arrivano a fine mese. Eppure allo Stato abbiamo dovuto pagare le tasse anticipate al 100%. Viviamo nella marginalità e la nostra è diventata una guerra tra poveri». C’è chi si lamenta per «la liberalizzazione delle licenze commerciali che ha prodotto eccessi e concentrazioni dell’offerta facendo perdere professionalità e rallentando l’economia, anziché accelerarla». Ci sono le guide turistiche che dicono «no alle guida nazionale, disastro culturale», e ci sono centinaia di “balneari” in rappresentanza «delle 30 mila imprese del litorale italiano che occupano oltre 100 mila addetti». Loro protestano per «una errata interpretazione della direttiva Bolkestein che annovera tra i servizi le concessioni demaniali delle spiagge, al contrario di quanto avviene per i fluviali, per le piste da sci, le autostrade o le acque minerali», e a causa della quale nel 2015 saranno costretti «a partecipare a un’asta pubblica in competizione con le multinazionali e senza poter avere alcun riconoscimento degli investimenti fatti finora». Le «Donne da mare» difendono i loro «60 mila posti di lavoro, perché – dicono – è soprattutto femminile l’occupazione dell’impresa balneare». Spiegano che invece «in Spagna il governo è riuscito ad avere una proroga dell’asta di ben 75 anni, e in Croazia di 90 anni», e chiedono «a Renzi un incontro, perché non abbiamo ancora capito qual è la sua posizione a riguardo» (da notare però che i loro europarlamentari di riferimento sono, come tengono a ricordare, soprattutto l’ex An Roberta Angelilli e il convertito Cristiano Magdi Allam).

Al di là dei torti e delle ragioni, sono storie che raccontano del Paese reale ben fotografato dai dati della Rete imprese Italia: «La ricchezza prodotta è diminuita del 9%, quella pro capite dell’11,1%, il valore aggiunto dell’industria ridotto del 19,5%, il potere d’acquisto delle famiglie diminuito del 9,4%, la spesa familiare ridotta del 7,9%, la disoccupazione raddoppiata, quella giovanile oltre il 40%, mille al giorno le imprese che dall’inizio della crisi hanno cessato l’attività». Sono numeri che esigono «una svolta», coraggiosa ed energetica. Il giovane Renzi è avvisato.