Impronta magica, terapeutica, segno di appartenenza, espressione di rango sociale, ribellione al sistema dominante pagina autobiografica o fenomeno di massa, il tatuaggio ha attraversato la storia dell’umanità vivendo stagioni alterne, tra successi e cadute in disgrazia. Si va dal divieto della Bibbia a tatuarsi il dolore di un lutto o la croce cristiana, ordine cui comunque i crociati medievali trasgredivano allegramente, fino alle classificazioni di orrore ad opera di Cesare Lombroso, che associò la «scrittura fisica» alla criminalità e alla devianza. Il corpo inselvatichito, foriero di messaggi culturali e non più solo biologici, è sempre stato un soggetto imprendibile. Minaccioso proprio perché sconosciuto e in continua mutazione, quindi fuori controllo (sociale).

IN QUESTI ULTIMI ANNI, il disegno sulla pelle è tornato prepotentemente in scena con il compito – forse raggelato e addomesticato – di rappresentare una seconda identità, destituita (non del tutto, naturalmente) dell’aura sciamanica delle sue origini: da marchio del corpo riconoscibile, narrazione esistenziale densa di punteggiature emotive, oggi il tatuaggio somiglia più a una sinfonia decorativa, necessaria per contrastare l’anonimato a cui costringe il processo in atto di globalizzazione.
Non è casuale, infatti, che la pelle diventi una pergamena letteraria, non solo idonea a rispecchiare scene di battaglia, bestiari esotici o lussureggianti foreste di calligrafie, ma è pronta ad assorbire e restituire col sangue le frasi dei poeti più amati, seguendo la moda del text tattoo che si può trasformare, a piacimento, in un memento mori o in una cartografia sentimentale. Quest’ultima indica le emozioni da seguire nella vita, come fosse un breviario etico, un orientamento di comportamenti e attitudini per uscire dall’impasse dello sconcerto.

Presso M9, il Museo del ’900 di recente costituzione con sede a Venezia-Mestre, la storia di quell’antichissima arte inchiostrata – o anche incisa con carboni vegetali – viene ripercorsa in una grande mostra allestita al terzo piano (visitabile fino al 17 novembre, a cura di Luca Beatrice e Alessandra Castellani, con Luisa Gnecchi Ruscone e Jurate Piacenti dell’Associazione Stigmata). L’esposizione è nata nel corso di un lavoro di studio condotto dalla Fondazione Torino Musei al Mao, ampliato poi con diversi contributi che permettono di scandagliare – secolo dopo secolo – le «figure» e le condizioni del corpo istoriato.

[object Object]

L’ITINERARIO, che affonda le radici nella preistoria, accoglie anche le nuove ed estreme professionalità del settore (con la rassegna internazionale Tattoo off, timonata da Massimiliano «Maxx» Testa), indagando sia le pratiche dei tatuatori nel mondo contemporaneo sia l’immaginario degli artisti. Così, il «segnale» applicato su di sé con le tecniche più varie (si va dalle spine di cactus agli aghi) diviene un catalogo sociale e antropologico di racconti, fino a sconfinare nell’immaginario di denuncia dello sfruttamento umano. È questo il senso dei tatuaggi che l’artista spagnolo Santiago Sierra imprime sulla schiena di sei persone, una semplice linea che li collega l’un l’altro, tracciando il «confine della vergogna», con tanto di remunerazione per il sacrificio. E in questa direzione va anche quell’Educazione siberiana dello scrittore e tatuatore Nicolai Lilin, che non riesce a digerire la perdita simbolica dell’iconografia, secondo lui oggi troppo spesso vissuta senza ispirazione.

LA PAROLA tatuaggio proviene dal polinesiano tatau (onomatopea dal suono dei colpi delle bacchette che servivano per marcare la pelle) e venne importata in Inghilterra nella seconda metà dei Settecento insieme a Omai, il principe ricoperto di disegni che il capitano Cook presentò a corte come «meraviglia», dando l’avvio a quello zoo umano che poi ebbe la sua apoteosi nelle Expo universali e nei freak show.
Diventò un fenomeno da baraccone anche Olive Oatman, rampolla di una famiglia di mormoni che all’età di 14 anni – era il 1851 – fu rapita dagli apache-mohave e poi tatuata sul mento, per favorire il suo viaggio nell’aldilà e il riconoscimento degli antenati. Liberata e tornata a vivere nella cosiddetta società di suoi simili, fu utilizzata come «mostro» da offrire in pasto a un pubblico di onnivori voyeurs.
Se è vero il tatuaggio ha smarrito l’alone ribelle che segnalava «i non allineati» (dalle culture giovanili underground come skinhead e punk ai carcerati, fino ai marinai, individui déracinés, alle prostitute come la circense Suleika dipinta dall’espressionista tedesco Otto Dix o alle ambiguità di genere rivendicate), allora la sua vasta popolarità, goduta oggi in qualsiasi classe sociale, potrebbe attutire quella alterazione del corpo, un tempo ambasciatrice di nuovi mondi. Nonostante il dna «eterno» – quel suo alimentare un principio di consistenza indelebile – quel disegno inciso si fa pratica epidermica, una sperimentazione estetica che prova a superare biografie, intima diaristica, riti di passaggio e, soprattutto, dal peso della Storia.