Gran parte della mia vita è costruita su «errori», decisioni che i miei amici mai avrebbero approvato e che, tuttavia, ho preso senza avere la certezza che fossero le decisioni migliori. Se lo avessi chiesto, mi avrebbero detto che era un errore prendere quella strada. Questo tipo di domande avrebbe generato una fastidiosa sensazione d’incertezza nella mia vita, perché tutto ciò che avrei fatto dopo sarebbe stato viziato dall’indecisione. Dopo molti anni passati a commettere errori, sono arrivato alla conclusione che la nozione d’errore è sempre associata all’insicurezza. Molti cercano di salvare capra e cavoli o di risolvere questioni senza compiere delle scelte.

D’altra parte, chi decide cosa è giusto e cosa è sbagliato? Negli anni del liceo, quando iniziai a perdere la fede, prima di rendermi conto che ero più vicino all’agnosticismo che all’ateismo, i miei professori di filosofia non risparmiarono parole per avvertirmi che, prima o poi, il senso di colpa suscitato dalla mia mancanza di fede religiosa mi avrebbe schiacciato. Non riuscivano a spiegarsi come fossi potuto cadere così facilmente nell’«errore». Nemmeno io riuscivo a spiegarmelo, perché non capivo ancora che cosa s’intendesse con la parola «verità». Il secondo dei miei errori, appendice all’indifferenza religiosa, è stato l’abbandono dei due percorsi universitari che avevo intrapreso (prima Sociologia, poi Lingue), per dedicarmi alla scrittura.

Entrambe le facoltà mi piacevano. Entrambe comportavano la lettura di molti libri, che era proprio quello che dovevo fare io, perché tutti gli scrittori lo fanno: leggere quella milionesima parte della grande biblioteca con cui s’impara a diventare uno scrittore. Perché pensavo che l’università non fosse compatibile con lo sbocciare della mia vocazione letteraria? Di tanto in tanto l’insicurezza mi tormentava. Mi sarebbe servito tanto tempo per diventare uno scrittore e, qualora ci fossi riuscito, avrei dovuto disporre di molto più tempo per riuscire a campare con la scrittura. Perché di qualcosa avrei dovuto vivere. Non avevo né patrimoni né rendite, tantomeno una famiglia che mi potesse aiutare a soddisfare i bisogni essenziali: sfamarmi, vestirmi, vivere sotto un tetto, coltivare qualche piccolo vizio. Se non avessi commesso l’«errore» di abbandonare l’Università, mi dicevo, avrei potuto schivare i morsi della fame, l’umiliazione di chiedere prestiti agli amici e il nomadismo che la mancanza di un ruolo sociale mediamente accettabile m’imponeva. I calcoli pessimistici primeggiavano sul mio stato d’animo via via che il mondo adottava formule di pragmatismo sempre più implacabili. Talvolta pensavo che, grazie al pragmatismo imperante e ai suoi servi, diventare scrittore sarebbe stato qualcosa di misterioso e di temibile, una specie d’insubordinazione all’ordine stabilito che non sarebbe stato possibile calcolare con formule matematiche.

Che cosa significava essere scrittore? Quando si diventava scrittore a tutti gli effetti? Immaginavo che, con un po’ di fortuna, avrei scritto un libro che sarebbe stato pubblicato, sarebbe arrivato nelle librerie e nelle mani dei critici per poi seguire il suo destino in quelle dei lettori. Stessa sorte sarebbe toccata al successivo. Idee come la fama o la fortuna non mi hanno mai sfiorato; a malapena, la speranza che qualcuno riconoscesse la qualità dei miei testi. Quest’ultima era anche una delle principali argomentazioni contro il timore di cadere nell’errore. Chi sbaglia non può certo agire in modo così disinteressato. Era un errore supporre che tutto sarebbe avvenuto solo con il concorso della vocazione? Quali erano allora i fattori che avrebbero dato un valore all’atto della scrittura e un ruolo sociale allo scrittore? Conoscevo persone di mezza età che avevano preso la decisione d’essere artisti o scrittori e che, nel giro di pochi anni, avevano dovuto fare i conti con la sconfitta. Vivevano pieni di rabbia e di risentimento, invecchiavano ingoiando veleno. Non accettarono mai la sconfitta, non tanto perché non avevano ottenuto riconoscimento, quanto perché sapevano che altri avrebbero avuto successo laddove essi riscuotevano solo indifferenza e derisione.

I loro singoli casi avrebbero potuto servire d’esempio qualora si fosse dovuta soppesare la scelta di una professione e il prezzo da pagare a causa di una decisione sbagliata. Vivere significa saper scegliere. Quando parlavamo di questi artisti raté, dicevamo che avevano intrapreso la strada sbagliata. Erano caduti nell’errore di presupporre che potessero essere dei buoni artisti o scrittori, sebbene li animasse una passione autentica per l’arte e per la letteratura. La sincerità non garantiva scelte felici: peccando di sincerità si colpiva nel segno ma si commettevano anche molti errori.
Il tempo che trascorre tra l’imprecisato momento in cui si decide di volere diventare scrittore e il momento in cui gli altri, i lettori per intenderci, ti confermano che lo sei davvero, è lastricato d’angoscia. Si vive sul bordo dell’abisso. Come farsi carico dei primi fallimenti? Penso sempre ai rifiuti che molti scrittori hanno dovuto incassare e alla sensazione d’insuccesso che molto probabilmente li ha perseguitati. A Buenos Aires un famoso critico di origini spagnole rifiutò Foglie morte, il primo romanzo di Gabriel García Márquez, chiedendo all’autore di dedicarsi ad altro.

Non so se André Gide abbia mai fatto i conti con la colpa d’avere rifiutato, per Gallimard, il primo volume di Alla ricerca del tempo perduto. È possibile supporre che il rifiuto non abbia condizionato la vocazione di Marcel Proust, consapevole d’avere intrapreso una delle avventure creative più ambiziose del XX secolo.
L’ostinazione mi portò ad abbandonare l’università e ad adagiarmi, nei primi tempi, in una specie di ozio creativo. Vivere ai margini. Scrivere in modo compulsivo. Uno dei vantaggi di vivere senza una professione ben definita e senza regole accettate socialmente era la libertà che si conquistava in questa specie di aristocratica marginalità. Posso dire d’essere stato libero ben prima d’avere scritto qualcosa che meritasse l’approvazione dei miei contemporanei; sono stato libero per quanto riguarda la distribuzione del tempo, la scelta degli amici, il modo in cui amministravo le mie esigue entrate saltuarie le volte in cui è stato possibile ricevere compensi per i miei testi letterari e giornalistici.

Se la parola errore significa non adeguarsi alla realtà né tantomeno riflettere la verità, come avrei imparato successivamente, bisognava rovesciare il significato della mia decisione e accettare che, in effetti, essere scrittore non consiste nell’adeguarsi alla realtà ma nel darle un significato diverso da quello delle apparenze. Non è nemmeno questione di riflettere la verità perché la verità non ha un solo volto né una sola anima. La definizione di errore è proprio ciò che cerca di affrontare e di problematizzare la creazione letteraria.
Questa certezza, acquisita con l’abbandono dell’università e con la scelta dell’incerto futuro dello scrittore, ha infine placato quel senso di colpa che ho dovuto addomesticare durante la mia gioventù. Molte altre cose – in amore, nei viaggi, nelle amicizie – sono state precedute o accompagnate da decisioni intuitive e irriflessive.
Ho smesso allora di pensare all’«errore» e ho iniziato a considerarlo come il primo passo per arrivare in un luogo che, seppur imprecisato, dà un senso alla nostra vita. (Cartagena de Indias, 30/8/2014)

*Scrittore, giornalista, docente universitario e critico letterario colombiano, morto a 72 anni nel maggio scorso. Gli altri scrittori del libro-progetto «About the Error» sono Guillermo Linero Montes, Efraim Medina Reyes, Robert H. Marlowe e Juan Manuel Roca.

 

SCHEDA

Il progetto «Tales-on» nasce dal desiderio di creare una piattaforma non-profit di ricerche culturali su differenti territori dell’emisfero sud del mondo e sulle loro rispettive esperienze artistiche e antropologiche. «About the Error/Sobre el Error» – la riflessione intorno alla «deviazione», lo sbaglio – raggiunge ora Bogotà. Qui il programma si arricchisce con una mostra su Pasolini, nel quarantennale della sua morte, all’interno del programma di Arbo, la fiera di arte contemporanea che anima la capitale colombiana dal 1 al 4 ottobre. Marco Milan, curatore del progetto, presenterà il libro d’artista «About the Error/Sobre el Error», realizzato dagli artisti e dagli scrittori colombiani coinvolti e già donato a 500 istituzioni nel mondo. In rassegna, presso la Biblioteca Luis Angel Arango, le esperienze di 4 artisti colombiani: Mateo López, Nicolás Paris Vélez, Daniel Salamanca e Daniel Santiago Salguero. Nel Museo de Arte Contemporaneo Banco de la Republica, nel centralissimo quartiere della Candelaria, la retrospettiva Pasolini e il Mondo Terzo sviluppa il tema dell’errore analizzando l’opera del grande scrittore e regista italiano