Come in migliaia di altre città, anche a Messina siamo stritolati dal debito e siamo costretti a “far” sanguinare le nostre casse comunali e i nostri concittadini. Questo a causa della condizione in cui gli enti locali si trovano oggi: meri esecutori materiali dei diktat europei.
Negli ultimi anni gran parte dei tagli li hanno fatti gli enti locali. Le riduzioni dei trasferimenti, l’eliminazione della tassa sulla casa, il Patto di stabilità, gli obblighi imposti di privatizzare i servizi pubblici fanno venire meno le ragioni stesse dell’esistenza di un Comune. Fanno venire meno la possibilità di gestire in comune i bisogni di cui gli abitanti sono portatori. Questo vale anche per noi, per l’amministrazione Accorinti, per l’esperienza forse più anomala nella quale uno strano miscuglio di percorsi, fortemente segnati da una storia di mobilitazioni e lotte, ha battuto a Messina le corazzate del centrodestra e del centrosinistra, disattivando la proposta grillina.
E allora, cosa siamo noi, che abbiamo sventolato la bandiera della pace nel giorno della festa delle forze armate e pochi giorni dopo abbiamo approvato il regolamento della Tares?
Siamo la confessione di un’impotenza.
In un giorno siamo passati dall’essere il simbolo della lotta contro la militarizzazione e la guerra all’essere gli esecutori materiali dell’aumento in bolletta dovuto alla tassa sui rifiuti imposta dal governo nazionale.
E’ così.
Abbiamo urlato tante volete in corteo «Noi la crisi non la paghiamo» e poi l’abbiamo pagata. Abbiamo parlato di diritto all’insolvenza, ma poi tremiamo all’idea che i bilanci comunali vadano in default, perché il risultato sarebbe il commissariamento delle città e allora tagli, vendite di beni patrimoniali e aumenti delle tariffe fioccherebbero.
Il giorno dopo la proclamazione a sindaco il primo atto di Renato Accorinti è stato togliere le barriere di vetro che impedivano l’accesso dei cittadini alla casa comunale.
Oggi abbiamo il palazzo del Municipio invaso da moltitudini che reclamano bisogni primari inevasi. Guardiamo negli occhi la povertà, terrorizzati dal timore di non essere in grado di dare risposte. D’altronde, lo sforamento del Patto di Stabilità impedisce di investire anche quel poco che le residue risorse economiche consentirebbero. Dentro queste compatibilità ogni sforzo rischia di essere vano.
Se da un lato l’insediamento, il consenso, oggi, non possono che praticarsi sulla dimensione locale e territoriale, dall’altro queste esperienze – anche le più riuscite – hanno il respiro corto se non si uniscono ad altre simili; se non costruiscono un processo vertenziale che punti alla redistribuzione delle risorse economiche e all’eliminazione dei vincoli contabili che impediscono ogni possibilità d’iniziativa.
Insomma, ci vuole una rivolta, una rivolta del basso contro l’alto, dei cittadini, dei lavoratori, delle frammentate esperienze di auto-rappresentanza, delle amministrazioni capaci di cogliere questa impellente necessità.
«Un’altra musica in comune», l’incontro che si svolgerà a Pisa dal 22 al 24 novembre, insieme ai laboratori politici vivi a Firenze, Ancona, L’Aquila, Brescia, Brindisi, Messina, Imperia, Pisa, Roma, Siena, può essere l’occasione per lanciare un percorso unitario. A Pisa si incontreranno realtà politiche e territoriali diverse tra di loro per consistenza ed estrazione.
A tema avremo i beni comuni, la partecipazione e l’amministrazione dal basso. Sarà quello il luogo dal quale cominciare a lanciare campagne condivise che diano respiro nazionale a quanto pratichiamo già – o vorremmo praticare – nei territori. Senza preclusioni, senza pregiudizi, con la massima apertura, in ascolto di tutte le esperienze di autogestione e di autorganizzazione che aspirano ad essere l’alternativa ai dispositivi dominanti in crisi verticale.
*Consigliere comunale, Messina