Votare o rinviare è un quesito inutile, una gaffe da comitato tecnico: certo che si vota il 20 e 21 settembre, ormai. Anche se si vota in stato di emergenza, perché il governo lo ha prorogato dopo che aveva deciso di tenere le elezioni (regionali, amministrative, suppletive e il referendum) a settembre proprio per non rischiare di arrivare all’autunno in una situazione di emergenza. Andremo ai seggi, voteremo, faremo attenzione. Qui in Italia. E all’estero?

Già, perché votano anche gli italiani all’estero, anche se qualche volta lo dimentichiamo – ma qualche altra volta no, nel 2016 la sottosegretaria Boschi volò a Buenos Aires in veste ufficiale a fare campagna per il sì. Giusta o sbagliata che sia la legge (dubbio che non c’è sulle modalità operative: sono sicuramente sbagliate e insicure), ci sono 4,6 milioni di elettori italiani all’estero e hanno diritto a votare per il referendum – molti di loro anche per le regionali e le altre elezioni. Ma non potranno farlo, perché vivono in paesi dove il Covid-19 continua a fare vittime come da noi in primavera. Il Lockdown paralizza quei paesi e – quel che più conta in queste caso – i nostri consolati. Che non possono stare dietro alle operazioni previste dalla legge italiana: in questi giorni dovrebbero provvedere alla stampa delle schede e alla preparazione dei plichi, che dovrebbero arrivare per posta raccomandata alle case degli italiani iscritti all’Aire entro il 6 settembre. Niente di tutto questo può accadere regolarmente. Gli uffici consolari sono chiusi, come a Buenos Aires dove vivono circa 400mila connazionali iscritti all’Aire. Più di un dipendente è risultato positivo, imponendo la serrata, del resto generalizzata in Argentina da ormai molti mesi. Episodi di chiusura obbligatoria hanno riguardato anche i consolati di Maracaibo in Venezuela, di Manila nella Filippine e di Nizza in Francia. Il Consiglio generale degli italiani all’estero denuncia casi di consolati chiusi per positività in 16 nazioni, dall’Albania agli Stati uniti, dal Brasile alla Colombia. C’è una lettera nella quale si porta a conoscenza del problema il presidente della Repubblica Mattarella ed è annunciata un’interrogazione parlamentare.

Ammesso che il materiale elettorale riesca a essere lavorato dalle tipografie e dai consolati, nei paesi dove continua il lockdown ci sarà il problema di spedirlo e di riceverlo indietro. Difficile che chi non esce di casa da mesi decida di farlo adesso per andare all’ufficio postale. In Brasile, poi, da qualche giorno i postini hanno dichiarato uno sciopero generale che blocca ogni consegna. Di fonte a questo genere di ostacoli, evidentemente da Roma sono arrivate istruzioni di giocare di anticipo. E così nelle case di alcuni elettori italiani all’estero sono già arrivati i plichi elettorali che fanno compagnia a quelli che erano già arrivati in previsione del voto il 29 marzo (pubblichiamo qui accanto due schede con due date che abbiamo ricevuto dall’America del sud). La legge sul voto dei nostri connazionali all’estero è del dicembre 2001 e in realtà prevede che l’invio nelle case del materiale elettorale sia fatto in una data più vicina a quella del voto. La ragione è evidente: evitare di lasciare in circolo troppo a lungo il materiale, perché anche su quelle schede il voto dovrebbe essere espresso in maniera personale e segreta. Invece c’è chi ha ricevuto il materiale assieme al certificato elettorale datato 27 agosto (giovedì prossimo) ma in realtà già consegnato da un paio di giorni.

Se tutto è stato accelerato – le schede in qualche modo dovranno arrivare ai consolati, se mai riapriranno, entro il 15 settembre e poi a Roma entro il 17 – significa anche che le liste elettorali per gli iscritti all’estero sono state congelate prima, forse già in previsione del voto del 29 marzo, con il rischio che sei mesi dopo restino fuori i più recenti aventi diritto al voto. Dalle liste pubblicate del ministero degli interni risultano 4.616.344 elettori italiani all’estero, dunque sono cresciuti rispetto a quelli chiamati a votare per il referendum costituzionale del 2016 (erano 4.052.341). Allora l’affluenza fu molto bassa, intorno al 30%, e tale si è confermata alle elezioni politiche del 2018. Nelle attuali circostanze andrà probabilmente anche peggio.