Già il titolo suona stonato: Bella da morire, come una canzonetta, come l’abitudine delle frasi fatte buttate lì. Ma se una è bella deve morire? Assonanza bugiarda, e pericolosa, specie se la pretesa è parlare di violenza sulle donne, femmicidi, maltrattamenti familiari, aggressioni più o meno nascoste. Perché è questo l’obiettivo dichiarato dalla nuova serie di Raiuno, Bella da morire appunto, diretta da Andrea Molaioli, in onda questi giorni – buoni gli ascolti, finale il prossimo 5 aprile alle 21.30 – che al tema unisce l’ambizione di affrontarlo in chiave di «genere»( cinematografico).

IL RIFERIMENTO per il regista romano è ancora quello del suo fortunato esordio, La ragazza del lago, a cui aggiunge ammiccamenti a Twin Peaks – con anatomopatologa « alla» Dale Cooper e un uso dilatato delle musiche, belle, di Teo Teardo – nella cittadina di provincia italiana scossa dall’improvviso ritrovamento in fondo al lago della sua Laura Palmer, la giovane e bionda Gioia (Giulia Arena) la più carina del paese, segretamente (e manco troppo) desiderata dalla maggior parte del maschi locali. Ma anche qualche accenno a una versione 2.0 di Io la conoscevo bene, nei sogni della ragazza che inseguono gare paesane di bellezza e agenzie di modelle gestite da tipi poco raccomandabili. Lei però, la preferita di papà, con madre assente perché risucchiata dall’alzheimer, e sorella «solida» sposata e con figlia, continua a sorridere malgrado tutto.

A indagare c’è un’ ispettrice (Cristiana Capotondi) specializzata in femminicidi: «Una donna non sparisce viene ammazzata» è la frase che la guida, anche di fronte al diniego di dragare il lago perché una ragazza carina magari si è presa una vacanza dai suoi con un uomo (ovvio), o si è andata a fare un giro o chissà. Lei invece è ferrea, le donne che ha cercato non avevano aperto chioschi su spiagge esotiche ma erano tutte morte .
Le due donne i sono sfiorate all’inizio, anzi la giovane uccisa le ha regalato una t-shirtper scusarsi di avere rovinato la sua. Davanti allo specchio del bagno di un bar si sono sorrise, riflesso una dell’altra. Anzi no, doppio rovesciato perché anche l’ispettrice ha una sorella, ma lei è quella seria, la sorella invece quella un «fragile», madre single con dietro i servizi sociali.

RECITAZIONE, cura della messinscena, scrittura come nella maggior parte delle serie italiane Rai – pochissime le eccezioni – sembrano secondarie chissà perché vista la concorrenza ormai planetaria. Questa non fa eccezione, ma è ancora più grave a fronte delle ambizioni di affrontare un soggetto importante. E invece: parlare di violenza significa assumere per la protagonista una sola espressione fino a sfiorare l’isterismo e l’incapacità professionale? E perché nessun personaggio femminile ha sfumature, perché la relazione con un marito è solo professione o casa e via dicendo? Possibile che la scrittura (di Filippo Gravino, Flaminia Gressi, Davide Serino) non si ponga delle domande, non si soffermi sulla complessità invece che nutrirsi di una stereotipata semplificazione?

Che porta a toccare argomenti come l’aborto con l’equazione feto/bambino – il piccolo non ci sarebbe stato se avessi abortito suggerisce a un certo punto il racconto che la sorella fa all’ispettrice della violenza sessuale subita. È questo il modo di parlare di donne per Raiuno? – del resto la rete di Don Matteo che contro l’aborto come la sua omologa suora sprint (Che dio ci aiuti) accumula pistolotti indecenti perché trattasi di tv pubblica che il credo di tutti dovrebbe rispettare.

Perciò sì, parliamo di donne e di violenza ma facciamolo seriamente, usando al meglio i mezzi in campo, in questo caso le immagini e l’immaginario, e soprattutto con un prodotto che sappia rompere i luoghi comuni nella differenza, nel «genere» con libertà. Sarebbe finalmente il tempo, no?