La cosiddetta «questione georgiana» era divenuta un assillo di non poco conto per il rugby italiano. Andava in qualche modo risolta. La vittoria di sabato scorso a Firenze (28 a 17) non è stata brillante e nemmeno particolarmente convincente ma è servita ad archiviare un po’ di polemiche. Superata dagli azzurri anche nel ranking mondiale, per ora la Georgia continuerà a macinare successi nel campionato europeo destinato alle squadre del Tier 2, la seconda fascia; l’Italia potrà invece proseguire il suo cammino nel Sei Nazioni, cercando di confermare anche sul piano dei risultati quei progressi tecnici – più spesso dei segnali intermittenti – manifestati nell’ultimo anno sotto la gestione di Conor O’Shea.

Oggi a Padova arriva l’Australia (Dmax, 15.00), finalista mondiale nel 2015 ma oggi scivolata decisamente in basso, al sesto posto nella classifica stagionale. Sabato scorso i Wallabies sono stati battuti (9-6) dal Galles a Cardiff in una partita dominata dalle difese e decisa dai calci piazzati. Per la squadra di Michael Cheika è l’ottava sconfitta su undici match disputati nel 2018, una media che non ha forse precedenti nella storia del rugby australiano. Dopo aver perso la serie dei test di giugno contro l’Irlanda, i Wallabies hanno conquistato due soli successi nel Championship dell’emisfero Sud, chiudendo penultimi davanti ai Pumas argentini e soltanto in virtù di un punto di bonus. E alla crisi tecnica si somma quella economica, con gli spettatori in fuga dal rugby a 15 in una nazione che agli amanti della palla ovale può offrire le alternative del rugby a 13 e dell’Aussie rules.

Dire che oggi l’Italia ha la possibilità di battere l’Australia (una delle tre nazioni del Tier 1 con la quale non abbiamo mai vinto) sarebbe segno di ottimismo. I tabellini dei 19 precedenti tra le due squadre riportano sonore batoste e alcune sconfitte di misura. Un solo precedente in coppa del mondo, nel 2011 in Nuova Zelanda: nel piccolo stadio di North Harbour, in un tipico pomeriggio di piovaschi neozelandesi, i Wallabies ci regolarono senza eccessivi patemi (32-6), spegnendo sul nascere ogni ambizione di qualificarci alla seconda fase. In altre occasioni il successo è stato più contenuto (a Firenze, 2012, quando lo scarto fu di soli 3 punti) ma, insomma, la differenza tecnica è sempre stata evidente.

Il tour australiano si concluderà sabato prossimo al Twickenham , contro gli inglesi che i pronostici danno per favoriti. Chiudere la serie con un filotto di tre sconfitte sarebbe per loro insostenibile. Dunque non ci faranno alcun regalo. In nessuna fase di gioco gli azzurri possono vantare condizioni di vantaggio: non nei punti di incontro dove Michael Hooper e David Pocock sono autentici fuoriclasse, non nella mischia chiusa a trazione tongano-samoana (Fainga’a, Sio, Tupou), e nemmeno nel gioco dei trequarti che per tradizione è sempre stato un punto di forza della nazionale verde-ocra. Per batterli servirebbe l’intercessione degli dei di Ovalia sommata a una pessima giornata degli Aussies.

Rispetto al match con la Georgia di una settimana fa la nazionale italiana presenta un solo cambio: Jayden Hayward, recuperato dall’infortunio al costato, occuperà il ruolo di estremo al posto di Luca Sperandio. Sergio Parisse non ha recuperato e lo ritroveremo in campo a febbraio nel Sei Nazioni. Confermati tutti gli altri, compresi i panchinari. Cosa è lecito attendersi dagli azzurri dopo la prova di Firenze? Innanzitutto maggior continuità e più disciplina nei punti di incontro, ancora una volta dimostratisi i punti deboli della squadra. E dunque ottanta minuti giocati senza le consuete pause e amnesie che in tante occasioni hanno vanificato tutto ciò che di buono era stato messo in mostra sul campo.

Le formazioni:

Italia: Hayward; Benvenuti, Campagnaro, Castello, Bellini; Allan, Tebaldi; Steyn, Polledri, Negri; Budd, Zanni; Ferrari, GHiraldini, Lovotti.

Australia: Folau; Ashley-Cooper, Kerevi, Folley, Petaia; To’omua, Gordon; Pocock, Hooper, Dempsey; Coleman, Rodda; Tupou, Fainga’a, Sio.

Alle 20.00, ora di cena, chi desiderasse farsi un’idea di dove stia andando il rugby di altissimo livello, il rugby dal quale per ora ci separa un incolmabile abisso, può cercare una qualche connessione con DAZN e guardare Irlanda-All Blacks. E’ la sfida più importante di questa finestra autunnale. Le due squadre più forti del mondo, rispettivamente seconda e prima nel ranking mondiale con ampio margine di scarto sulla terza (il Galles), si affrontano in quello che potrebbe essere un anticipo della finale dei prossimi mondiali.

È un confronto stellare. Da un lato c’è la (quasi) perfezione della Nuova Zelanda e di un gioco che ha nella velocità di esecuzione e nella qualità assoluta degli interpreti il suo punto di forza. Dall’altro c’è la forza distruttrice degli irlandesi e la loro interpretazione del rugby come capacità di avanzamento e demolizione delle difese avversarie, impatto dopo impatto, placcaggio dopo placcaggio, fino allo sgretolamento del muro.

Per la cronaca nell’ultimo anno gli All Blacks hanno perso due sole partite: una a Chicago nello scorso novembre contro l’Irlanda e un’altra qualche settimana fa a Wellington contro gli Springboks durante il Championship, e soltanto dopo aver sbagliato assai più del dovuto ed essere stati meno perfetti del solito. Due sconfitte che in patria qualcuno ha imputato a stanchezza e mancanza di concentrazione, come dire due bestemmie in un Paese dove il rugby o è perfetto o non è. Tuttavia sabato scorso, a Twickenham, l’Inghilterra è andata a un passo dal colpaccio. E’ finita 16-15 dopo un primo tempo che ha visto il quindici della Rosa portarsi addirittura sul 15-0 mettendo a segno due mete per poi subire il ritorno dei neozelandesi. A cinque minuti dalla fine gli inglesi si sono visti annullare dal TMO (fuorigioco) la meta che avrebbe assegnato loro un’inaspettata vittoria.