Matteo Renzi, sindaco di Firenze e nuovo segretario del Pd, è un uomo «senza peli sulla lingua». Ha anche una certa inclinazione per battute un po’ grevi, il che, a quanto pare, lo rende simpatico. Forte del suo alto indice di gradimento non ha esitato a trattare con aperto disprezzo un importante esponente della minoranza del suo partito. Criticato da più parti (anche la popolarità ha i suoi limiti) ha tirato dritto per la sua strada rivendicando un modo di fare piuttosto sbrigativo come suo marchio di fabbrica. È possibile che questa coerente persistenza nei modi sgarbati personalmente gli giovi: i precedenti non gli sono sfavorevoli. Non giova a lungo andare al nostro comune sentire perché lo logora. Che si chiudano le stalle quanto i buoi sono ormai fuggiti può sembrare anacronistico e sicuramente non si può chiedere a Renzi il conto di una maleducazione diffusa in cui egli è l’ultimo arrivato e probabilmente non il più importante tra i suoi interpreti. Tuttavia rassegnarsi all’andazzo non è il modo migliore di vivere e sperare che il vento cambi aiuta la respirazione almeno sul piano psicologico. Come i poeti e gli artisti sanno la forma del linguaggio può essere sostanza: l’eleganza, l’intensità, l’immediatezza, il ritmo, la finezza, la complessità della tessitura non sono meri contenitori ma il contenuto in azione, la sostanza nel suo divenire. Quando la forma si dissocia dalla sostanza e diventa orpello retorico, guscio vuoto che nel nascondere rivela la sua inconsistenza, la vera posta in gioco non é l’ipocrisia sociale lastricata di marmo di Carrara che nasconde l’indifferenza o la cattiva intenzione nei confronti del prossimo: va in scena la paura della profondità dell’esperienza, l’aggrapparsi con tutte le proprie forze alla superficie dell’essere. La futilità emanata dalle buone maniere tutte le volte che queste sostituiscono i sentimenti motiva la diffidenza nei loro confronti come pure un certo apprezzamento della maleducazione percepita, con grande approssimazione, come immediatezza e sincerità. In realtà l’atteggiamento irrispettoso nei confronti degli altri maschera la mancanza di intima convinzione nei confronti del proprio operare e dire, una delegittimazione prevalentemente inconscia dei propri intenti che più é forte più diventa arroganza.

Più in generale l’abitudine crescente nelle relazioni pubbliche come in quelle private di considerare la mancanza di sensibilità e di pudore come prova di spontaneità e di confidenza (o addirittura di intimità) favorisce la messa in circolazione di tutte le forze che si oppongono al legame con l’altro: narcisismo, volontà di dominio, pregiudizio, diffidenza. Crea così un danno che avendo progredito nel silenzio è spesso irreparabile quando diventa manifesto.

La cura delle parole, la discrezione (che è sospensione del giudizio prima di ogni altra cosa), il tatto (la sensibilità che è solidarietà nei confronti dell’idioma relazionale dell’altro) fanno sedimentare i nostri sentimenti e pensieri, ampliando i loro orizzonte, e ci predispongono all’ascolto e alla comprensione delle situazioni anche quando il nostro interlocutore è un nemico. Non antagonizzano le passioni di cui è intriso il nostro vivere ma, al contrario, mettendo un argine alla loro mancanza di responsabilità e orientandole verso il rispetto dell’alterità danno loro senso/direzione e intensità, le finalizzano come apertura al mondo. La buona forma della comunicazione non è fatta di sentimenti deboli ma di sentimenti intensi, profondi: la passione che veicola non offende, afferra.