Il film Uno, due, tre di Billy Wilder è noto per essere uno dei film più parlati della storia del cinema. Non c’è virtualmente un attimo in cui qualcuno non stia parlando, e di gran carriera, accavallandosi con quello che sta dicendo qualche altro personaggio. Il film è probabilmente una parodia di quella famosa e icastica espressione hitchcockiana secondo cui gli attori al suo tempo non sono che «talking heads», «teste parlanti», o insomma delle bestie («cattle») descrivendo così un modo di fare cinema che predilige il mezzo e il primo piano, per dare il maggior risalto possibile alle espressioni dei volti degli attori.

La scenografia, le ambientazioni e la struttura dell’immagine sono tutte messe in secondo piano, un modo di fare entertainment particolarmente utilizzato dalle serie televisive, in cui il messaggio verbale è l’elemento fondamentale da comunicare allo spettatore. Con le dovute eccezioni. Alcune serie hanno cercato – e cercano – di rappresentare il silenzio, di mettere in primo piano altri elementi dell’opera.

Di certo non si può dimenticare Wallander, fiction britannica alla sua ultima, ahimè, stagione con un indimenticabile Kenneth Branagh e dreyeriane ambientazioni nordiche. E soprattutto Rectify – creata da Ray McKinnon nel bouquet di Sky Atlantic (due stagioni ma ne è stata confermata una terza) che in un primo momento sembra un drama sulla pena di morte, di fatto il tema centrale della storia – un uomo liberato dopo 19 anni di reclusione nel braccio della morte. In realtà Rectify sembra più essere un’indagine sul senso della vita. Come il carattere di un uomo – il giovane Holden (il personaggio si chiama realmente così nella finzione tv interpretato da un efficace Aden Young) possa trasformarsi passando gli anni formativi in un ambiente asettico privo di contatti con altri esseri umani. Entrato in prigione a 16 anni con l’accusa di aver stuprato e ucciso la fidanzata, all’uscita dal carcere trova una famiglia che continua a considerarlo un teenager e lo ricolloca nella sua stanzetta trattandolo come si tratta un giovanotto e non un maturo trentacinquenne chiaramente segnato dalla vita.

Holden è un uomo pacato, lento, che tiene gli occhi sempre sgranati sul mondo come volesse assorbire il più possibile la realtà e lasciasse trapelare il meno possibile quello che ha dentro. Nella scena in cui restituisce la palla a un bambino in spiaggia, mostra tutte queste sue caratteristiche: si muove lentamente, è un bravo «ragazzo» che chiede al bambino se può restituirgli la palla, si complimenta per poi tornare a sedersi accanto a sua madre. La donna stravede per Holden, un figlio che si comporta come si deve, si tiene alla larga dalle tentazioni (donne, alcol, droghe e perfino rumorose compagnie maschili) e in generale fa quello che gli viene chiesto di fare.

Ha, certo, delle stranezze e sono tutte parte di un comportamento irrazionalmente calmo, date le circostanze. Cammina molto a lungo, percorre l’intero stato in bicicletta in completa solitudine, resta chiuso in camera per giorni senza leggere, scrivere o guardare la televisione. Anche la recitazione di Aden Young è fatta di movimenti lenti, quasi nessuna torsione del collo. Ma è un comportamento che ricorre anche quando interagisce con Tawney, la religiosissima cognata. I suoi modi pacati anche quando le comunica delle cose particolarmente disturbanti, come la sua ferma convinzione della non-esistenza di dio. In questa scena, il giovane Holden arriva a sostenere che dio sia un’enorme rana… Chi è dunque questo Holden? Ha violentato e ucciso la sua ragazza oppure no? Lui stesso non chiarisce l’episodio. Cosa gli piace fare? Cosa vuole diventare «da grande»? Non sappiamo, né forse sapremo mai nulla, costretti a restare con lo sguardo fisso su un uomo quasi immobile, imperscrutabile, solitario.